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sabato 20 maggio 2017

capitolo 16 Il nuovo cinema Lux disponibile

                                                          Il Nuovo Cinema Lux


1999, l’odissea nello spazio del teatro Lux era finita: a maggio di quell'anno il cinema teatro Lux venne inaugurato. A maggio di qualche anno prima, mentre il Friuli crollava, io ci camminavo dentro, da solo e al buio, alla ricerca di un giubbino per la mia Ginevra, mentre il Friuli crollava.

Per la nuova inaugurazione scelsero Matrix, senza sapere che la slow motion l’avevamo inventata noi, molto tempo prima, grazie alla fantastica cinepresa di Ivano.



Dovevo essere presente: caricai in fretta mio figlio, che allora aveva sei mesi, nella Fiat Uno, l’auto che aveva sostituito la Dyane 6 demolita da poco, e partii in direzione del Teatro Lux.Nel 1999 Davide Van Des Sfroos pubblicò l’album Brèva e Tivàn.Io non lo conoscevo ancora, ed era un peccato perché La Balada del Genesio sarebbe stata la colonna sonora perfetta per quel giorno, soprattutto la frase cul destèn de dree di spàll per mulàmm ‘na bastonàda.Non fu propriamente un bastone ad arrivarmi alle spalle e a cambiare la mia destinazione per quella sera, ma un’auto sportiva.

Così, al posto di arrivare al Lux, mi ritrovai all'ospedale, l’auto distrutta, mio figlio, incolume, in braccio a degli sconosciuti che lo avevano estratto dalla macchina, un ciupa ciupa per calmarlo. L’ambulanza mi portava al pronto soccorso assieme al ragazzo americano che mi aveva centrato in pieno.Era la prima volta che mio figlio vedeva un uomo nero. Avevamo sempre evitato di spaventarlo dicendogli «smettila che arriva l’uomo nero», non volevamo creargli pregiudizi.

Ma l’uomo nero invece arrivò. Di corsa, sfrecciando alle nostre spalle, in una folle gara con i suoi amici, lungo la statale. Tentò di superarmi a un incrocio mentre io giravo a sinistra verso il Lux, e mi centrò in pieno spezzando la macchina, il sedile rotto, i finestrini in frantumi.

Non riuscivo a capire cosa fosse successo: mi trovavo sdraiato dentro la macchina, non vedevo più la strada e non sapevo più dov'ero.

Tirai il freno a mano, spensi il motore. Non potevo alzarmi, la portiera era incastrata. Girandomi vidi mio figlio sul seggiolino, fissato con le cinghie, ribaltato sul sedile. Aveva da poco compiuto tre anni, sapeva parlare ma preferiva tacere. Quella volta disse: «oh-oh, sono caduto!», con molto aplomb. Non era spaventato, solo inclinato.

Ma poi arrivò l’uomo nero. La sua macchina aveva spazzato via la mia, camminato sopra le aiuole spartitraffico dell’incrocio, divelto i segnali stradali e alla fine si era schiantata contro un ponte in cemento. Gli airbag, se funzionano, ti salvano la vita, e così fu per l’uomo nero; ma i vetri gli avevano tagliato la faccia.

Lui, a differenza di me, riuscì a muoversi e a uscire dall'auto, e corse verso di me. Mise la testa dentro al finestrino e mio figlio lo vide: la faccia per metà rossa e per metà nera, sembrava Bigio vestito da giullare, ma il rosso, questa volta, non era tinta, era sangue.
Fu così che l’uomo nero e rosso spaventò mio figlio, che cominciò a strillare: ora era inclinato e spaventato.

Qualcuno chiamò i vigili e in poco tempo, a sirene spiegate, arrivarono Carabinieri Polizia Stradale ambulanza, e pure la Militar Police americana.
Mi caricarono di corsa nel lettino dell’ambulanza, caricarono anche il ragazzo sanguinante, e ci portarono via, inseguiti da Carabinieri e Militar Police in un luminoso abbraccio blu: un figurone.

La faccenda si risolse in modo meno grave del previsto, qualche taglietto alle braccia, una bella botta alla gamba sinistra, e naturalmente il colpo di frusta.
Del ragazzo americano non si seppe più niente, anche lui vittima delle leggende metropolitane che accusano la famigerata Militar Police di far sparire dalla nazione chiunque commetta un danno ai residenti.
Mio figlio invece fu ritrovato in braccio a una parente, che oramai pensava di adottarlo, visto che io ero stato portato via senza che lei potesse dirmi niente.

E il Lux venne inaugurato senza di me, ma nessuno se ne accorse.




Gli organizzatori avevano deciso di iniziare con un film in prima visione, in modo da stupire la gente con il fantastico e, a detta di alcuni, assordante Dolby Surround, del quale però non ho mai colto molto, essendo io sordo a un orecchio.



La sera dopo, però, c’era teatro con alcuni gruppi parrocchiali, e in chiusura gli Homo Ridens. In effetti era la chiusura, ma ancora non lo sapevamo. Al nostro turno ci esibimmo in una serie di gag, molte delle quali ormai note, ma, nonostante questo, apprezzate. Non rispettammo il tempo messo a disposizione, ma nessuno si lamentò: il pubblico gradiva.
Recitai con il collare, unico segno dell’incidente della sera precedente.



Il nuovo Lux però non era più casa nostra, del gruppo di gestione precedente si erano perse le tracce. La struttura era rimasta la stessa, ma con alcune modifiche: il tetto venne ricostruito e i colombi sfrattati, con buona pace del sacrestano, che a maggio andava a prendersi i torresani per condire le lasagne; tutti i serramenti vennero ripassati, diventando così a prova di pipistrelli.




Il numero di posti era stato ridotto a 374 poltroncine in velluto rosso, certamente ignifughe; le due ali della galleria non erano più accessibili al pubblico, una catenella impediva l’accesso, che ora era riservato ai soli tecnici. Il palcoscenico era enorme, dodici metri per otto di profondità. Sul lato sinistro una porta consentiva di accedere ai camerini e ai bagni, addirittura con doccia. Sparito il telo fisso su cui proiettare, sostituito da un telo avvolgibile a scomparsa. Sparite le macchine da presa a carboni, e purtroppo nessuno pensò di tenerne una a futura memoria. Erano vecchie, molto vecchie, ma forse proprio per questo meritavano un poco di rispetto. Ora si usavano macchine a lampada e totalmente automatiche.Non arrivavano più le pellicole divise in otto o più pizze, ma due valigioni con dentro già avvolti i due tempi del film.



Eravamo contenti di avere inaugurato il nuovo Lux, ma consapevoli che, proprio perché nuovo, sarebbe stato più complicato poterlo usare con la libertà di un tempo.

Mentre il teatro si preparava a riaprire i battenti, noi ci trovavamo a casa di Loris per decidere cosa fare. Pensammo ad altri sketch, ma Capo non era interessato, si disse disponibile solo per le repliche.
«Quali?» disse Fayo: non avendo nuove proposte, faticavamo ad essere chiamati in giro.
Giravamo di più nei locali, dove le nostre scenette erano ancora gradite, e spesso venivamo pagati con birra e cibo.
I teatri e i festival non ci appartenevano più.
Il motore della fantasia stava rallentando il suo ritmo, quasi avessimo bruciato troppo in fretta l’energia di cui potevamo disporre.
«La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo e tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti». Lo aveva detto anche il dottor Tyrell, l’inventore dei replicanti in Blade Runner. La nostra candela ormai era consumata.

Ma non potevamo sparire nel nulla, c’erano degli obblighi legali, eravamo una associazione con statuto e codice fiscale, insomma, dovevamo espletare delle pratiche prima di scomparire.

Alla fine organizzammo una cena per sciogliere il gruppo. Non eravamo tristi, solo consapevoli. E il folletto magico che si agitava dentro ognuno di noi si era addormentato. Eravamo certi della sua esistenza, ma non sapevamo come fare per risvegliarlo.
Quella sera ci fu un brindisi e un abbraccio tra noi, che eravamo consapevoli di avere vissuto un’avventura unica e costruito un legame profondo tra di noi. Se soltanto quel maledetto folletto non si fosse addormentato, chissà cosa avremmo potuto costruire.

Gli Homo Ridens si esibirono per la prima volta nel 1984 dentro al teatro Lux, che poi venne chiuso.

Nel 1999 il nuovo teatro Lux venne inaugurato e gli Homo Ridens sciolsero il loro gruppo.

Ma tornarono un’ultima volta.


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