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sabato 29 aprile 2017

capitolo 13 Repliche Straordinarie

Repliche straordinarie

Poi andammo in prigione, ma non una prigione qualsiasi, un carcere di massima sicurezza.
San Pio X a Vicenza. In America hanno Alcatraz e Yuma, noi ci accontentiamo di San Vittore, San Pio X e Regina Cæli.


C’è poco da fare, i nomi danno immagini diverse: pensando ad Alcatraz uno si figura bruti che si accoltellano a morte tra loro, immaginandosi a San Vittore uno sente il profumo del sugo al pomodoro e del caffè.

Dunque arrivammo con il nostro furgoncino, un grande e robusto portone si aprì, ci fecero entrare in un corridoio con pareti di cemento armato. Davanti a noi un portone in ferro, spesso, pieno e scuro. Ruotando su possenti cardini cigolanti il cancello si chiuse alle nostre spalle. Passerelle in ferro sopra i corridoi. Guardie armate di fucili ci tenevano di mira.

Ci era sembrata una buona idea accettare l’invito che l’assistente sociale del carcere aveva fatto:
«Sarebbe bello organizzare un vostro spettacolo per i detenuti del carcere».

Non avevamo capito che i detenuti non sarebbero usciti per venirci a vedere, ma eravamo noi a dover entrare.

Incastrati tra muri di cemento armato e portoni in ferro sbarrati, con guardie che ci miravano, cominciammo a dubitare della nostra scelta. Ci perquisirono tutti. Vestivamo leggero, sandali, pantaloncini corti e magliette: non andava bene, dovevamo coprirci il più possibile, meno pelle esposta. Quasi che ci fosse recluso Hannibal Lecter e che non bisognasse stimolargli l’appetito.

Poi entrammo, con noi anche Stefi, l’unica ragazza del gruppo. Superata la poderosa recinzione ci trovammo in una stradina in mezzo a un prato rasato alla perfezione. La stradina asfaltata terminava dopo poco, tra due palazzine uguali, l’ala maschile e l’ala femminile.
Alle finestre sbarrate erano appesi vestiti ad asciugare, in fondo c’erano palazzine simili a quelle che si vedono nei quartieri popolari, solo più basse, non più di tre piani. Sopra il muro di recinzione, di garitta in garitta, passeggiavano guardie armate.
Ci aprirono un portone a sbarre rosso, il colore delle sbarre di quelle palazzine.
Ad aspettarci c’era un detenuto un po’ più vecchio di noi, sulla trentina; capelli a caschetto castano chiaro, jeans, ciabatte da spiaggia in plastica e maglietta rossa. Stava con le braccia sporgenti tra le grate in ferro di un portone chiuso, ci guardava sorridendo malinconico. Le guardie aprirono il portone e ci dissero, senza presentarci, che lui ci avrebbe aiutato.
Dopo quel portone c’era un corridoio con ai lati le porte in ferro, a sbarre, delle celle: molte erano aperte e i detenuti, in pantaloni lunghi, magliette e ciabatte, passeggiavano tranquilli. Probabilmente non era la zona più pericolosa del carcere.
Stefi era stata fatta entrare dal lato femminile e non era con noi. Per evitare il risveglio di altri appetiti.
Scaricammo in fretta le cose e quando finimmo chiudemmo il portone principale lasciando il furgone fuori, con Lucio dentro.
Lavorando in fretta può succedere di dimenticare qualcosa, e noi dimenticammo fuori Lucio, in mezzo al prato dentro a un carcere di massima sicurezza. Lui tentò di entrare, si mise a bussare e gridare: l’unico caso di persona onesta che bussa alle porte di un carcere di massima sicurezza per poter entrare.
Ma quel suo darsi da fare fu un errore, si misero a suonare le sirene, le guardie corsero da noi gridando
«cosa avete fatto?»
«niente, uno di noi è rimasto fuori».
La guardia aprì il portone, trovammo Lucio sdraiato a pancia in giù gambe e braccia divaricate, le guardie sulle mura puntavano i fucili su di lui, altre due guardie erano in piedi imbracciando le mitragliette puntate contro di lui.
Alla fine entrò, e per poco non rimase dentro al carcere per aver tentato di ucciderci tutti a morsi, tanto era inferocito e spaventato.
Le due palazzine avevano una zona comune riservata per le attività collettive, c’era un piccolo palco in cemento dove attrezzammo le nostre cose. Arrivò anche Stefi.
Poi arrivò il pubblico, gli uomini accompagnati da guardie uomini, e le donne accompagnate da guardie donne. Tutti erano rigorosamente divisi in due gruppi di panche, alla nostra destra gli uomini, dall’altro lato le donne, nel mezzo passavano le guardie a richiamare chiunque tentasse un approccio.
Lo spettacolo a gag riuscì, era un pubblico con esigenze limitate e non credo che capitassero spesso occasioni simili per divertirsi. Ma ci furono dei momenti imbarazzanti, due in particolare.
Stefi entrò, in gonne, e si sedette sulla panchina di scena rivolta al pubblico, i maschi iniziarono a fischiare e con cenni delle mani chiedere a Stefi di divaricare le gambe. E lei diventò rossa come un peperone d’agosto, tentando di spingere le gonne sotto il ginocchio. Minacciose, le guardie sedarono il pubblico maschile, e anche qualche gruppetto di donne.



In un’altra scena alcuni coristi si riscaldavano l’ugola facendo versi collegati alle vocali, a me toccava la lettera E. L’idea, nelle prove, era che imitassi la sirena della polizia, ci sembrava una buona idea. Ma ora eravamo nell’unico luogo in cui non era una buona idea. Quando cominciai a fare la sirena, prima i maschi poi le femmine, e alla fine anche le guardie, mi mandarono in vari luoghi e con vari modi. Mi stupì molto come certe persone, anche se criminali, possano diventare così maleducate.
Terminato tutto, caricammo aiutati dall’ormai nostro amico detenuto.
Salutammo tutti, ma prima di andarcene chiesi a una guardia cosa aveva combinato.
«Deve scontare 30 anni, ha ucciso suo padre a pugni per difendere la madre». A volte è strana la giustizia umana.

Capita poi a volte di recitare in date prenotate da tempo, che però si sovrappongono a eventi non previsti. Ci trovammo una volta a recitare un sabato sera d’estate, durante un’importante partita della nazionale di calcio.
Eravamo nella bella corte di una fattoria, dietro al palco la casa padronale e davanti un panorama incantevole.




 Lo sguardo da sopra il palco scivolava lungo distese di vigne per poi risalire in fondo alla piana verso altre collinette coltivate a granoturco. Una serata splendida con il giusto tepore di giugno, senza afa, con un bel venticello che allontanava le zanzare. Tutto perfetto, tranne che la nazionale italiana era impegnata in un’importante partita dei mondiali. Veniva voglia di mettere la televisione sul palco e guardare la partita, bevendo una birra con il pubblico. Purtroppo dovevamo recitare. Arrivò il pubblico che, ignorando lo sport nazionale, riempì le sedie.
Per cambiarci dovevamo scendere dietro il palco, vicino alla porta di ingresso della casa. Iniziammo lo spettacolo, il simpatico proprietario ci chiese se poteva guardare la partita in cucina o se dava disturbo. Gnagno gli disse «basta tenere il volume un po’ basso e non ci sono problemi», poi aggiunse «siccome non recito subito, posso guardare l’inizio?».
Andò a finire che ci alternammo dalla scena alla cucina. Il proprietario, prima con il rispetto che si deve alle persone di spettacolo, poi con la famigliarità che c’è tra amici di bicchiere iniziò a servire vino, pane biscotto, salame, soppressa, sottaceti, poi il caffè, la graspa e anche il rasentin.
Lo spettacolo andò benissimo. In scena ci aggiornavamo sulla partita, alla fine qualcuno cominciò ad aggiornare anche il pubblico, aggiungendo parole sportive non presenti nel copione: del resto nessuno poteva obbiettare niente perché, come già detto, non avevamo un copione. Fu una serata bellissima. Al termine dello spettacolo ne uscimmo vincitori, al contrario della nostra nazionale.

Un’estate dovevamo recitare in Piazza delle Poste, uno dei piccoli salotti all’aperto della nostra bella città.

Il palco era pronto, noi anche, mancava poco all'inizio, ma cominciò la pioggia. Non era battente, ma fastidiosa, e ci impedì di fare lo spettacolo. La gente per un po’ attese, poi cominciò a girovagare, chi andando verso il Duomo, chi verso Piazza dei Signori. Mangiammo una pizza nella speranza che la pioggia smettesse, ma purtroppo non fu così. Un paio di noi, senza dire niente, iniziarono una gag sotto i portici della piazza, cominciò ad arrivare gente. Ai due si aggiunsero altri di noi, i tecnici stesero un telo nero improvvisato legandolo tra una colonna e una inferriata. Cominciarono ad arrivare sempre più persone, presi alla sprovvista qualcuno di noi si ritrovò tra il pubblico, e da lì inizio la propria parte facendosi largo tra la folla. Creammo qualcosa di nuovo, semplice e spontaneo. Era percepibile una sensazione diversa tra il pubblico, non si trattava di divertimento, erano sorrisi di affetto. Ci volevano bene, erano con noi, capivano e apprezzavano la nostra spontaneità e le nostre capacità. Potevamo sbagliare senza deluderli.



Piazza degli Scacchi a Marostica è incantevole. Metteteci un palco, una sera d’estate luccicante di stelle e noi sopra, al palco intendo, non alle stelle. Da lì vedevamo teste ovunque, fitte come funghi chiodini quando spuntano sulle piante a ottobre. Davanti a noi il castello illuminato, a fianco i portici e la gente che rideva, alcuni sorseggiando del vino comperato nei bar, che per l’occasione spensero le luci. Quella sera non furono le torri bianche o nere, gli alfieri o le regine a duellare per cercare di mettere in scacco il re. Ci riuscimmo noi dal palco a dare scacco matto in quella piazza.

Il maggior numero di spettatori lo incontrammo per colpa di Cristoforo Colombo. Il genovese che per errore sbarcò in America nel 1492. Non pensava di certo a noi quando approdò con le sue caravelle. Cinquecento anni dopo, per merito, o colpa sua, ci scritturarono per animare l’incontro regionale dell’azione cattolica dentro al palazzetto dello sport di Vicenza. I posti a sedere sono 1700, quelli in piedi non si contano. Non avevamo mai visto tanta gente in un posto solo, giovani rumorosi, chiacchieroni e casinisti, beati loro. Per commemorare Colombo, e il suo famoso uovo, a Loris venne un’idea. Come al solito brillante e un po’ allucinogena. In effetti non abbiamo mai indagato sull’origine dei suoi spunti, e forse non è il caso. Conviene pensare che ci sia della genialità dentro quel metro e novantotto. In pratica far vivere al pubblico l’arrivo dei conquistatori. Nel dettaglio, i conquistatori erano Loris, Gnagno e Fayo. Indossavano un sacco a rettangolo di tessuto nero elastico. Camminavano a gambe e braccia divaricate e sembravano delle gigantesche amebe nere. Il conquistato ero io. Mi alzavo dal pubblico per presentare la nostra scena e poi venivo rincorso dalle gigantesche amebe fino a ripresentarmi sopra a una barca stilizzata, la Santa Maria. A fianco di questa barca c’erano Fayo e Gnagno con due barchette lunghe un metro fatte in carta e sorrette da bretelle. Le barchette erano sfondate in modo che i due potessero stare in piedi e remare. Loro erano la Niña e la Pinta. C’era il problema di amplificare l’audio. I responsabili avevano pensato che disseminando di microfoni gelato la zona dove si recitava il problema venisse superato. Non fu così e nulla di quello che dicevamo venne capito. Non che importasse molto dato che, a parte un momento di stupore iniziale provocato dalla vista delle amebe giganti, i giovani nel palazzetto ci ignoravano beatamente dedicandosi a socializzare tra loro. Il nostro Colombo volò all'interno del palazzetto ignorato da tutti. Ci consolammo spendendo la sera stessa, in trattoria, tutto il rimborso pattuito: non di soli successi vive l’attore.

Andammo a Trieste, al Teatro Miela, per il Festival del Triveneto e dell’Istria.
James Joyce non pensava di certo a noi quando scrisse l’Ulisse, ma in qualche modo Leopold Bloom assomigliava al nostro Loris.
Partimmo di mattina presto con furgone a auto. Allestimmo la scena e poi tutti al ristorante. Lo spettacolo era al pomeriggio, quello che si chiama una matinée. Il teatro era bello, moderno e capiente; in un corridoio, verso i bagni, c’era un piccolo quadro coperto da una tendina scorrevole. Aprii la tendina e la richiusi in fretta: erano ritratte due facce di donne, in mezzo a loro un pene, e loro ci stavano giocando.
Asterix avrebbe detto: «Sono Pazzi Questi Triestini».
La scena era pronta ed entrammo subito nei camerini a vestirci.



 Durante la replica Loris era molto arrabbiato, si lamentava del fatto che in sala c’era un signore nelle prime file che non si muoveva mai. Secondo lui stava dormendo. Questo ci irritò molto, non ci era mai capitato che qualcuno dormisse in sala. Alla fine, quando si accesero le luci, scoprimmo che il signore era una statua di legno di Joyce, la mettevano seduta tra il pubblico prima di uno spettacolo.



Parlarono di noi anche nel Piccolo il quotidiano di Trieste. Facendo i conti scoprimmo che l’incasso dello spettacolo non copriva le spese, ma avevamo mangiato bene e passato una splendida giornata, con tanto di foto ricordo con cuochi e camerieri.



Ci chiamarono alla sagra di Torri, importante centro vicino a casa nostra.
La sagra di Torri era famosa perché a quella data pioveva sempre. Quell'anno no, il tempo era splendido, anche se per precauzione si erano attrezzati con un grande tendone messo a disposizione del palco, a fianco delle cucine e delle panche per la gente che veniva a mangiare. 
Replicavamo Un Due Tren Tren!!

Tutto era pronto per l’inizio previsto alle 21. Visto che eravamo vicino a casa accettammo la proposta degli organizzatori di un rimborso a percentuale, contavamo sul nostro affezionato pubblico.
Alle 20 arrivò una bufera di vento e pioggia, a scrosci, a torrenti, a fiumi. Continuò così per più di un’ora. Arrivarono dodici persone. Ma The Show Must Go On come ci hanno insegnato i Queen, e così fu.
Il pubblico reagì in modo inaspettato, quasi sentissero la responsabilità di enfatizzare la serata e di caricarci di entusiasmo, entrarono anche i cuochi e tutti i volontari delle cucine.
A detta di Ciano, il nostro critico portatile, oltre che supertecnico audio, fu la nostra migliore replica.
A fine spettacolo dei cuochi portarono in sala il cibo pronto che sarebbe stato avanzato, ci aprirono dei tavoli e a tutti fu offerto da mangiare. Quella sera fini così: sotto un tendone, con l’acqua che continuava a cadere. Mangiammo insieme, attori, pubblico, cuochi e camerieri. Al pubblico venne anche restituito il biglietto, ma nessuno prese i soldi, noi rinunciammo al compenso a favore di un gesto di cortesia per il cibo mangiato. L’anno dopo non ci chiamarono alla sagra che riuscì molto bene, senza pioggia e con molta affluenza di gente. Gli organizzatori ci scrissero una lettera, e nella lettera c’era un assegno di 500mila lire, come compenso per la sera dell’anno prima, sorprendente.

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sabato 22 aprile 2017

capitolo 12 Parigi


                                                                         PARIGI


“Homo Ridens che successo, i nostri studenti vincono due festival, a Digione e alla Nouvelle Sorbonne”



Titolava così l’articolo di Sabrina Tomè. Per accedere a quei festival bisognava che fossimo studenti. In realtà un nostro amico lo era, Mamo, leggermente fuori corso, ma ancora iscritto al Bo di Padova. Era l’unico studente del gruppo.
L’idea fu di Loris, manco farlo apposta.
La prima volta andarono in sordina lui e Mamo, non fu una brutta esperienza, anzi, arrivarono secondi con una gag muta sulla guerra e sulla pace: due soldati di opposti fronti si sfidavano in un duello senza armi; ognuno tentava di sopraffare l’altro, alla fine decidevano che vivere in pace era meno faticoso che farsi la guerra.
Il colpo di genio arrivò l’anno dopo: Loris, Gnagno, Fayo e Lucio costruirono una serie di gag che si ripetevano seguendo uno schema musicale composto da pezzi di canzoni e di rumori, le situazioni orchestrate sulla base dei suoni registrati.
Con caparbietà e determinazione continuarono a provare, cercare e mischiare musiche e gag, fino a costruire una gag unica di dieci minuti – il tempo massimo consentito – dal ritmo sostenuto e ricca di imprevedibili variabili. Registravano i rumori con un registratore a cassette, alcune musiche le ricavò Loris modificando la presa scart di un videoregistratore VHS. Alla fine ci riuscirono e cominciarono a provare.
Gnano, Fayo, Ciano, Loris, Kate, Lucio e Mamo si trovavano a insaputa del resto del gruppo. Una sera ci chiesero di poterci mostrare la gag: fu una visione. In quei dieci minuti c’era condensato il lavoro del nostro gruppo, l’essenza della nostra comicità, l’assurdo dei personaggi, la mimica, il tempismo, il paradosso e la semplice ingenuità dei bambini, era perfetto.
Si propose di chiamarlo Alluxinati, e non poteva che essere così, perché erano effettivamente degli allucinati quelli che si muovevano nella scena e perché, e questo lo sapevamo solo noi, al Lux sì nati era riconoscere le nostre origini, visto che al Lux siamo nati.



 “Che relazione abbiano due detectives alla Peter Sellers, un duro e due innamorati, la musica della Pantera Rosa, quella di Braccio di Ferro, il Sirtaki e una marcia funebre, gli Homo Ridens lo raccontano dal palco con una serie di imprevedibili, demenziali cambiamenti di gesti e di situazioni.”




Così arrivarono a Digione. E vinsero, vinsero anche a Parigi. Comparve anche un articolo su Le Figaro, ma sbagliarono foto. Almeno evitammo che lo attaccassero in tutto il paese.


Non solo arrivarono primi nella loro categoria ma vinsero anche il festival, vinsero alla grande, molto alla grande. Così andarono come ospiti a Casablanca e in Belgio.



Con queste vittorie un pochino ruppero gli zebedei al resto del gruppo che era a casa. 
Non perché si vantassero, ma consideravano quei dieci minuti come il massimo di quello che avevamo prodotto, e non una delle conseguenze delle fatiche fatte.

Spettava di diritto ai vincitori ritornare anche l’anno dopo. Capo ed io ci aggregammo al gruppo parigino. Loris propose una nuova scena, sempre su base musicale, ambientata in un museo. La scena terminava con lo scoppio di una bomba, la miccia della bomba era fatta con i bastoncini che si usano da bambini per fare le scintille.




Arrivammo a Parigi, dove eravamo ospitati in un appartamento, un po’ spartano, ma andava bene.
Il teatro era bellissimo ed enorme, giovani di tutta Europa si proponevano in varie discipline artistiche: ballo, musica, teatro impegnato e teatro comico. Avevamo a nostra disposizione tecnici e truccatrici e ci chiesero di farli lavorare, per loro era una specie di stage.




Il primo giorno provammo la scena, la miccia della bomba si spense addosso al maglione in pile nuovo che mi era stato regalato per l’occasione, incendiandolo, con grande sofferenza mia e molto stupore e risate di tutti gli altri, francesi compresi.
Terminate le prove visitammo Parigi in libertà, Ciano e io decidemmo di organizzare una visita al Museo d’Orsay per la mattina dopo. Volle aggregarsi Capo, lo aspettammo per un paio d’ore: eravamo soli in biglietteria, poi arrivarono pullman di turisti, alla fine entrammo nel caos totale.
Al ritorno, in metropolitana, vidi Capo: era di fronte a me e io cominciai a fargli dei gestacci mandandolo in varie parti del mondo e in luoghi anatomici noti.
Purtroppo alle sue spalle c’era un imponente ragazzo nero, che fraintendendo il mio gesticolare intese rivolte a lui le offese. Si alzò e con passo deciso venne verso di me. L’ultima cosa che vidi saltando fuori alla fermata del metrò fu la faccia sorridente di Capo che mi salutava agitando la mano. Mi toccò correre in mezzo all’enorme mercatino delle pulci cercando di disperdere il tenace e inferocito sconosciuto.
Per fortuna arrivò la sera dello spettacolo.


Tutti ci trattavano come fossimo attori veri, i fotografi ci chiedevano di metterci in posa, poi stampavano le foto e le incollavano su grandi pannelli, tutti parlavano con tutti in una frenesia di emozioni.
Noi guardavamo i nostri amici che si comportavano come veterani, gli organizzatori li conoscevano e li trattavano con il riguardo dovuto a chi ha già dato dimostrazione delle proprie capacità.
Eravamo a Parigi e ci consideravano attori.
Venivamo da uno sperduto paese di provincia, dove facevamo le prove dentro a un consorzio agrario rubando la corrente agli stradini del paese; se lo avessero saputo, i nostri cugini d’oltralpe, chissà cosa avrebbero pensato degli acteurs italiens.




Alla fine ci accomodammo per il trucco, ci rifecero gli occhi marcandoli di nero, lisciarono il volto per eliminare le imperfezioni. Al mio fianco una bella e procace ragazza francese si fece truccare il volto, poi chiese se potevano sfumare il colore del viso verso il decolté. Forse non intesero bene, oppure la truccatrice fu presa da eccessiva foga, senza preavviso le tirarono giù il vestito fino all’ombelico esponendo il suo seno alla curiosità dei presenti. Lei, presa alla sprovvista, non sapeva come reagire mentre la truccatrice le pennellava il decolté per sfumare la tinta. Con vissuta indifferenza mi limitai a sorriderle guardandola solo negli occhi. Lei virava verso una tonalità rosso cardinale. 

Arrivò il nostro momento, ci venne a chiamare un assistente di scena con tanto di cuffietta, come un bodyguard, e un registro in mano, proprio come nei film.
Il festival iniziò con l’ingresso in scena di un presentatore in tutù bianco, il quale iniziò a presentare il concorso, ma poi gli cadde il testo che aveva in mano, si inchinò, spalle al pubblico, per raccoglierlo, mostrando il deretano all’intera sala. Tutta questa scena serviva per permettergli la battuta «Mon Dieu, tout le monde a vu mon âme».

Le Festival Eurepéen de Cafe-Theatre iniziò così: con un culo in faccia al pubblico.

In realtà le scene presentate dai partecipanti delle varie nazioni erano molto belle, alcune un poco splatter, come quella di un gruppo inglese: per la loro scena rivestirono il palcoscenico di nylon e si versarono addosso barattoli di colori, lordandosi tutti. Poi arrivò il nostro turno.
Ai bordi del palco assistemmo alla presentazione del gruppo italiano: due ragazze entrarono in scena passeggiando, arrivò una Vespa Piaggio con a bordo due loschi figuri i quali si affiancarono alle tipe e le scipparono della borsa. Fu un pugno allo stomaco per tutti noi. Questi nostri cugini d’oltralpe, i nostri ospiti, che ci avevano invitato, e che ci facevano le riverenze, avevano ideato per gli acteurs italiens uno scippo come presentazione; non solo, dopo lo scippo entrò un calciatore, truccato da Maradona, che attraversò il palco palleggiando con in sottofondo il tifo di uno stadio. L’Italia per loro era questo: scippo e calcio.
Avrei voluto andare a casa, oppure dalla tipa francese col decolté in sala trucco, e non le avrei più guardato solo gli occhi.
Toccava a noi, ma questa presentazione ci aveva confuso e non andò benissimo. Alla fine arrivò il momento di spegnere la miccia, ma purtroppo avevo scordato lo straccio bagnato, ero distratto e arrabbiato. Decisi, in un impeto di rabbia e ferocia, di spegnere la miccia a mani nude, lo feci e mi ustionai, ululai, ma dentro di me e silenziosamente.
Cominciarono a chiamare i vincitori, in francese ovviamente.
A ogni chiamata i veterani del gruppo facevano finta di alzarsi, Capo e io saltavamo su come caprioli.
Non vincemmo niente.
Durante le sere che rimanemmo a Parigi si organizzavano spettacoli in vari teatri, per la prima volta vidi le gare di improvvisazione teatrale, in francese, tradotte da Fayo.
Scoprii così quanto sono volgari i francesi, almeno secondo la traduzione che mi era stata fatta.
Alla fine del festival si teneva una festa nella quale tutti si ritrovavano per stare in compagnia, tranne Mamo che preferì andare a casa a dormire. Ma ritornò dopo un’ora: riconoscemmo la sua silhouette in controluce, con camicia, cravatta e posa plastica.
Uno degli sponsor della serata era il liquore Baileys, Capo ne nascose un paio di bottiglie dentro la sua borsa come risarcimento.
Le bottiglie arrivarono fino a casa sane e salve, superando il viaggio in metropolitana e in treno.
Quando scese alla stazione di Vicenza però Capo lasciò cadere la borsa:
«Italia Mon Amour».

Così il piccolo trofeo si ruppe, impregnando del denso liquore tutti i vestiti, con grande soddisfazione di Ciano e mia.

Ormai ci conoscevano bene, anche in S.I.A.E., dove ci capitò spesso di andare perché a volte ci organizzavamo da soli delle repliche.
«Ma perché non depositate i vostri testi?» ci disse un operatore della S.I.A.E.
La faccenda era complicata, soprattutto perché non avevamo i testi e non c’era un unico autore, ma si trattava di invenzioni collettive.
Ne parlammo tra noi e decidemmo comunque di depositarli.
L’iscrizione costava circa ottantamila lire ad autore, non potevamo iscriverci tutti: così si fece a estrazione per decidere chi era l’autore dei testi e per garantire una maggior tutela si scelsero due nomi, vennero estratti il nome di Ciano e il mio. Così iniziai la mia carriera di autore per caso.
Ma prima di depositare i testi bisognava scriverli, visto che non c’erano.

Risolvemmo la faccenda così: guardando le riprese traducemmo dal video e alla fine anche noi ci omologammo alle altre compagnie, e da allora, con fierezza, potemmo dire di avere dei copioni nostri e, addirittura, depositati.




sabato 15 aprile 2017

capitolo 11 Matrimoni

Matrimoni

Viaggiare, recitare e costruire commedie non impediva i contatti tra i sessi, amavamo il teatro, certo, ma anche i nostri ormoni avevano le loro esigenze.




Uno di noi, Toni Pollo, aveva dei capannoni in disuso, ma attrezzati per allevare appunto dei polli.
Al loro posto, per un periodo, allevò noi.
Organizzavamo feste lavorando come dei matti, un vecchio carro faceva da palcoscenico, dove Capo ed i suoi amici potevano suonare; le famose colonne falsamente ignifughe di Gnagno servivano per creare un angolino tranquillo dove mostrare la collezione di farfalle alle ragazze.

Per chi c’era, si inventavano gag non provate, a volte costruite al momento; in alcuni casi ci veniva chiesto di replicare qualcosa, allora ci divertivamo a scambiarci i ruoli; e poi feste di carnevale con costumi artigianali ma efficaci.


In una chiesa sconsacrata organizzammo lo S-clero-party: tutti rigorosamente vestiti da preti, suore, frati, sopra l’altare il dj, vestito da vescovo con tanto di mitra e bastone pastorale.
Non ci fecero più entrare e abbiamo il sospetto che, dopo che ce ne andammo, abbiano fatto benedire più volte la chiesetta, sia interno che esterno.
Spesso cucinavamo chili di pasta in un pentolone gigante di alluminio dalla provenienza incerta, e stavamo lì fino a mattina inoltrata a chiacchierare di tutto.
Al fine di non estinguere la razza cominciammo a progettare i nostri futuri di coppia, arrivarono i matrimoni, ma non ci colsero impreparati: abituati com'eravamo agli eccessi, questi nuovi eventi servirono per esibire le nostre imprevedibili fantasie, con l’effetto di terrorizzare sposi e famigliari.





Prima dei matrimoni è consuetudine organizzare gli addii ai celibati e, contrariamente a quanto si può supporre, i nostri addii erano tranquilli: cena col festeggiato, partitella a calcio sul piazzale di Monte Berico, depilazione, con schiuma e rasoio bic, dell’inguine del futuro sposo. A seguire la consueta depilazione di Dario.
Dario non si è mai sposato, ma non credo dipenda dai folti e sicuramente ispidi peli inguinali provocati dalle ripetute rasature. Apparentemente non frequentava donne e noi, per simpatia e incoraggiamento, lo depilavamo di continuo.
Poi le nozze: ci furono discussioni in merito all'importanza religiosa delle cerimonie.





L’ateismo nel gruppo era considerato un simbolo di ribellione e anticonformismo, Ivano andò oltre definendosi agnostico, e noi ammutolimmo in segno di rispetto. Raffaele difendeva le sue convinzioni religiose ed era del parere che chi si professava ateo non dovesse sposarsi in chiesa. Fino a che qualcuno domandò: «è più importante per un ateo sposarsi in Comune o per una cristiana sposarsi in chiesa?». Così si stabilì che lo sposarsi in chiesa anche per un ateo, o per l’unico agnostico, era considerato un gesto di amore verso la propria compagna. Questo alibi pacificò tutti, nessuno voleva iniziare le nozze con litigi famigliari, con buona pace di atei e agnostici.
Ai matrimoni seguivano gli scherzi: a Paolo legammo il letto con una catena e gettammo la chiave, fu costretto a passare buona parte della prima notte con un seghetto da ferro in mano. Toni mise in posa tutti sui gradini della chiesa, e noi iniziammo a cantare Leon Leon chi non salta l’è un cojon e tutti saltarono, anche i distinti borghesi famigliari della sposa. Toni impallidì, mentre il fotografo riportò la calma ululando e per poco non cominciò a sacramentare. Il pranzo era in una bellissima villa e Toni ci nascose ai parenti mettendoci in un angolino, chissà se lo rifarebbe, dato che dal nostro angolino facemmo il coro cantando La stajon de cagare sui prà a squarciagola, usando i sottopiatti d’argento come piatti da orchestra.
A Sandro nascondemmo pezzi di aringa affumicata dentro le scatole della corrente.
«Si sente il profumo dei mobili nuovi» «E sì, la qualità della vernice, ci vorrà un po’ di tempo perché vada via».
Al ritorno dal viaggio di nozze Sandro chiamò Bigio implorandolo di togliere l’odore impossibile. Bigio tolse gran parte, ma non tutto, anni dopo Sandro trovò mezza aringa dentro la cappa della cucina.
Al mio matrimonio furono clementi: murarono con il polistirolo la porta di ingresso e riempirono di bicchieri colmi d’acqua due rampe di scale; per entrare sfondammo il polistirolo.
Gentilmente ci aiutarono a raccogliere tutte le palline bianche che erano scivolate per i quattro piani di scale, per fortuna avevano tre grandi sacchi di plastica. Raccogliemmo tutto e lo portammo in casa, e Carletto, non visto, con calma tagliò il fondo a tutti i sacchi. Ce ne accorgemmo il giorno dopo, quando, per portarli via, i sacchi si svuotarono riempiendo di palline l’appartamento.
Bigio trovò una carpa viva nella vasca da bagno e fece la doccia col brodo: avevamo messo il Dado Star dentro il soffione della doccia; prima però c’era stata un’intensa discussione tra chi voleva il brodo vegetale e chi voleva quello di carne.

Gnagno e Schizzo si sposarono, inventando il matrimonio in due tempi: di giorno in villa con i parenti, la sera con gli amici, birra e concerto rock.
In quella villa avevano girato il film L’infermiera con Ursula Andress e nella piscina lei aveva nuotato nuda, ce lo disse orgoglioso il custode: «In questa piscina Ursula Andress ha nuotato nuda. E io l’ho vista!»
«Beh, ma dopo l’acqua l’avete cambiata, spero» disse Fayo, riportandolo alla realtà.



Noi invece nuotammo in mutande, poi rincorremmo Schizzo tra i parenti, per fare insieme a lei una foto: curiosa la scena della sposa che scappa gridando inseguita da una decina di maschi bagnati in mutande, deve essere l’unica sposa ad avere nell’album del matrimonio la foto da sdraiata con gli amici del marito seminudi.

La strategia di Gnagno e Schizzo di organizzare una serata di birra e rock dopo il lungo pranzo in villa con i parenti funzionò, perché tutti noi a fine serata eravamo stremati e senza energia per fare alcun tipo di scherzo.
Bano imparò la tecnica e dopo il suo matrimonio e il pranzo con i parenti ci ritrovammo a casa sua con spine di vino, birra e whisky. I ricordi sono un po’ confusi, tranne uno: le spine del vino e della birra erano affiancate, qualcuno aveva detto che una era birra senza schiuma e l’altra birra con schiuma. Non essendo pratici tutti si versarono da bere boccali di vino e birra.

Quando Bigio si sposò, Sandro, memore dell’aringa nascosta, rivendicò il diritto di prelazione sugli scherzi. Riempì la casa di Bigio di sveglie regolate in modo che si mettessero a suonare continuamente per tutta la notte. Ce n’erano in tutta la casa, anche dentro le scatole elettriche, proprio come Bigio ci aveva insegnato. Mentre lui riempiva la casa di sveglie, noi rimettemmo le aringhe nella casa di Sandro. Quella notte entrambi si pensarono.

Poi toccò a Capo.
Era difficile mettere a disagio Capo poiché in qualche modo, grazie alla sua simpatia, era sempre in grado di uscirne, ma si sposò anche lui e noi lo attendemmo al varco: la chiave di casa era stata affidata a sua madre con l’ordine perentorio di non consegnarla a nessuno, e lei il giorno stesso chiamò Gnagno e gli consegnò la chiave.
Al taglio della torta era prevista una musica romantica, Capo e la moglie dovevano afferrare insieme un coltello e tagliare una fetta del dolce millefoglie costruito a piramide. Ciano cambiò musica e partì la sigla di Sandokan. Capo non si scompose, sciolse la cravatta, se la legò attorno alla testa, prese il coltello, saltò sul tavolo e affrontò la torta con l’impeto di Kabir Bedi quando caccia la tigre; così vinse la prima schermaglia.






Quando i camerieri servirono agli sposi le fette di torta nei cassetti dei comodini della loro camera gli occhi della tigre divennero occhioni da micetto impaurito, ma il colpo di grazia venne dopo il dolce, quando improvvisammo un intervento chirurgico: vestiti da chirurghi, armati di improbabili attrezzi da ferramenta, afferrammo Capo e lo stendemmo su di un tavolo, le tende della camera nuziale furono usate come telo per coprirlo. Per rendere più splatter la scena uno dei chirurghi piantò un coltello sulla pancia di Capo, avevamo messo una tavola di protezione e qualcuno spruzzava acqua tinta di rosso su tutti i presenti, a simulare gli schizzi di sangue. Il colore doveva essere a base d’acqua e facilmente lavabile. Ecco, questa fu l’unica pecca, giorni dopo arrivarono vari reclami per vestiti macchiati, mentre le tende candide della camera sembravano lavate al mattatoio. 

Tutto questo era un’altra tappa, che indicava un cambiamento ormai prossimo, e cominciammo a esserne consapevoli. Il matrimonio funziona se entrambi rinunciano ad una piccola parte di indipendenza, e in un gruppo senza regole, qual era il nostro, si cominciava a introdurne alcune per amore.

Il nostro piccolo appartamento di coppia, essendo il primo, venne trasformato in una comune. Era normale avere amici che entravano e uscivano. Carletto suonava, entrava in casa, anche se era tardi, salutava, prendeva tre o quattro sigarette e usciva. A volte gli gridavamo di spegnere la luce perché eravamo a letto. La mattina dopo ritornava con brioches fresche a fare colazione con noi.

Ma il mondo parallelo che gravava su di noi continuava con garbo a grattare alla nostra porta, e un giorno decise di entrare a forza nella nostra stanza dei sogni. Non si limitò più a bussare, la realtà entrò nella mia vita con una bottiglia di spumante.
Presi dai nostri eventi, coinvolti dalla frenesia della vita, non ci eravamo accorti che attorno a noi si stavano ingrossando delle nubi che prima o poi avrebbero riversato il loro gelido contenuto con la rapidità e la forza di un brusco temporale.

Una sera vennero a trovarci i miei quattro fratelli con le rispettive mogli, entrarono nel piccolo salotto e posarono una bottiglia. Mentre giravano le quattro stanze dell’appartamentino, io stappai e versai lo spumante nei calici, ma i bicchieri rimasero appoggiati sulla piccola tavola quadrata.
Avevo intuito che c’era qualcosa di strano. Qualcuno, invece di parlare della casa o del viaggio di nozze, cominciò a parlare di mia madre: non capivo, si parlava di cancro in fase terminale, di quattro anni di malattia, del silenzio nei miei confronti, perché ero l’unico a vivere in casa con i genitori e temevano che, sapendo della malattia, cambiassi il mio modo di essere. Parlavano della fretta di farmi sposare, e che adesso lo sapevo, e che erano dispiaciuti ma mia madre aveva il cancro e doveva morire. E io non mi ero accorto di nulla.
Mi dicevano che si trattava di coliche renali, invece era necrosi dei tessuti, moriva a brandelli, un poco per volta, e io non lo sapevo. Troppo distratto e coinvolto nella passione che ci portava ad esibirci, miope di fronte alla cose più comuni, non avevo colto i segni di quello che succedeva, o forse, ancora peggio, questi segni li avevo ignorati.
Mia madre visse per altri quattro anni, pareva che dovesse morire ma si riprendeva sempre, e continuava a vivere con la dignità di chi impara a sopportare il dolore.
Poi mi telefonarono al lavoro: «Vieni al pronto soccorso con urgenza» e io corsi.
Sapevo che sarebbe accaduto, ero pronto, era ora.

Curioso come il destino possa prendersi gioco di noi con stravagante crudele fantasia. Non ci si può preparare veramente al futuro. Proviamo a costruirci una rete di possibilità, ma quando questo sostegno razionale cede, ti ritrovi supino e schiacciato, senza altra possibilità che la rassegnazione.

Non c’è un modo giusto per dire che una persona è morta, non esiste un metodo per rendere meno dolorosa una perdita. «è morto Giovanni, ha fatto un incidente due ore fa».

Capita di avere i brividi di freddo, o di paura, sentire i capelli della nuca che si drizzano, capita di avere crampi allo stomaco, e sentire la pancia che si contrae, capita di non capire dove ci troviamo, magari appena svegli, e capita che tutto questo accada insieme.

Non si trattava di mia madre, era mio fratello, aveva 42 anni.
È come se in una partita di calcio ti tirano un rigore. Tu lo sai che deve arrivare, guardi il pallone e aspetti, sei pronto per pararlo, ma poi qualcuno tira un calcio su un altro pallone e segna. Non lo sapevi, ma hanno cambiato le regole senza dirtelo.
Mia madre morì mesi dopo. Ero con lei mentre agonizzava.
Nei film proiettati al Lux, in punto di morte dicono sempre frasi importanti per la sceneggiatura, parole da ricordare per sempre. Mia madre disse: «che difficile è morire».
Sempre quell’anno, una notte, alle tre e mezza, suonò il telefono. Capitava che ero reperibile, ma non lo ero quella volta, alla cornetta la voce rauca di mio cognato: «dì a Celeste che nostro papà è morto».
Piero era morto nel sonno, aveva superato un intervento molto lungo e invasivo e poi, una volta diagnosticata la sua guarigione, morì nel sonno.

Andai dal medico perché la realtà mi faceva perdere i capelli a manciate.