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sabato 29 aprile 2017

capitolo 13 Repliche Straordinarie

Repliche straordinarie

Poi andammo in prigione, ma non una prigione qualsiasi, un carcere di massima sicurezza.
San Pio X a Vicenza. In America hanno Alcatraz e Yuma, noi ci accontentiamo di San Vittore, San Pio X e Regina Cæli.


C’è poco da fare, i nomi danno immagini diverse: pensando ad Alcatraz uno si figura bruti che si accoltellano a morte tra loro, immaginandosi a San Vittore uno sente il profumo del sugo al pomodoro e del caffè.

Dunque arrivammo con il nostro furgoncino, un grande e robusto portone si aprì, ci fecero entrare in un corridoio con pareti di cemento armato. Davanti a noi un portone in ferro, spesso, pieno e scuro. Ruotando su possenti cardini cigolanti il cancello si chiuse alle nostre spalle. Passerelle in ferro sopra i corridoi. Guardie armate di fucili ci tenevano di mira.

Ci era sembrata una buona idea accettare l’invito che l’assistente sociale del carcere aveva fatto:
«Sarebbe bello organizzare un vostro spettacolo per i detenuti del carcere».

Non avevamo capito che i detenuti non sarebbero usciti per venirci a vedere, ma eravamo noi a dover entrare.

Incastrati tra muri di cemento armato e portoni in ferro sbarrati, con guardie che ci miravano, cominciammo a dubitare della nostra scelta. Ci perquisirono tutti. Vestivamo leggero, sandali, pantaloncini corti e magliette: non andava bene, dovevamo coprirci il più possibile, meno pelle esposta. Quasi che ci fosse recluso Hannibal Lecter e che non bisognasse stimolargli l’appetito.

Poi entrammo, con noi anche Stefi, l’unica ragazza del gruppo. Superata la poderosa recinzione ci trovammo in una stradina in mezzo a un prato rasato alla perfezione. La stradina asfaltata terminava dopo poco, tra due palazzine uguali, l’ala maschile e l’ala femminile.
Alle finestre sbarrate erano appesi vestiti ad asciugare, in fondo c’erano palazzine simili a quelle che si vedono nei quartieri popolari, solo più basse, non più di tre piani. Sopra il muro di recinzione, di garitta in garitta, passeggiavano guardie armate.
Ci aprirono un portone a sbarre rosso, il colore delle sbarre di quelle palazzine.
Ad aspettarci c’era un detenuto un po’ più vecchio di noi, sulla trentina; capelli a caschetto castano chiaro, jeans, ciabatte da spiaggia in plastica e maglietta rossa. Stava con le braccia sporgenti tra le grate in ferro di un portone chiuso, ci guardava sorridendo malinconico. Le guardie aprirono il portone e ci dissero, senza presentarci, che lui ci avrebbe aiutato.
Dopo quel portone c’era un corridoio con ai lati le porte in ferro, a sbarre, delle celle: molte erano aperte e i detenuti, in pantaloni lunghi, magliette e ciabatte, passeggiavano tranquilli. Probabilmente non era la zona più pericolosa del carcere.
Stefi era stata fatta entrare dal lato femminile e non era con noi. Per evitare il risveglio di altri appetiti.
Scaricammo in fretta le cose e quando finimmo chiudemmo il portone principale lasciando il furgone fuori, con Lucio dentro.
Lavorando in fretta può succedere di dimenticare qualcosa, e noi dimenticammo fuori Lucio, in mezzo al prato dentro a un carcere di massima sicurezza. Lui tentò di entrare, si mise a bussare e gridare: l’unico caso di persona onesta che bussa alle porte di un carcere di massima sicurezza per poter entrare.
Ma quel suo darsi da fare fu un errore, si misero a suonare le sirene, le guardie corsero da noi gridando
«cosa avete fatto?»
«niente, uno di noi è rimasto fuori».
La guardia aprì il portone, trovammo Lucio sdraiato a pancia in giù gambe e braccia divaricate, le guardie sulle mura puntavano i fucili su di lui, altre due guardie erano in piedi imbracciando le mitragliette puntate contro di lui.
Alla fine entrò, e per poco non rimase dentro al carcere per aver tentato di ucciderci tutti a morsi, tanto era inferocito e spaventato.
Le due palazzine avevano una zona comune riservata per le attività collettive, c’era un piccolo palco in cemento dove attrezzammo le nostre cose. Arrivò anche Stefi.
Poi arrivò il pubblico, gli uomini accompagnati da guardie uomini, e le donne accompagnate da guardie donne. Tutti erano rigorosamente divisi in due gruppi di panche, alla nostra destra gli uomini, dall’altro lato le donne, nel mezzo passavano le guardie a richiamare chiunque tentasse un approccio.
Lo spettacolo a gag riuscì, era un pubblico con esigenze limitate e non credo che capitassero spesso occasioni simili per divertirsi. Ma ci furono dei momenti imbarazzanti, due in particolare.
Stefi entrò, in gonne, e si sedette sulla panchina di scena rivolta al pubblico, i maschi iniziarono a fischiare e con cenni delle mani chiedere a Stefi di divaricare le gambe. E lei diventò rossa come un peperone d’agosto, tentando di spingere le gonne sotto il ginocchio. Minacciose, le guardie sedarono il pubblico maschile, e anche qualche gruppetto di donne.



In un’altra scena alcuni coristi si riscaldavano l’ugola facendo versi collegati alle vocali, a me toccava la lettera E. L’idea, nelle prove, era che imitassi la sirena della polizia, ci sembrava una buona idea. Ma ora eravamo nell’unico luogo in cui non era una buona idea. Quando cominciai a fare la sirena, prima i maschi poi le femmine, e alla fine anche le guardie, mi mandarono in vari luoghi e con vari modi. Mi stupì molto come certe persone, anche se criminali, possano diventare così maleducate.
Terminato tutto, caricammo aiutati dall’ormai nostro amico detenuto.
Salutammo tutti, ma prima di andarcene chiesi a una guardia cosa aveva combinato.
«Deve scontare 30 anni, ha ucciso suo padre a pugni per difendere la madre». A volte è strana la giustizia umana.

Capita poi a volte di recitare in date prenotate da tempo, che però si sovrappongono a eventi non previsti. Ci trovammo una volta a recitare un sabato sera d’estate, durante un’importante partita della nazionale di calcio.
Eravamo nella bella corte di una fattoria, dietro al palco la casa padronale e davanti un panorama incantevole.




 Lo sguardo da sopra il palco scivolava lungo distese di vigne per poi risalire in fondo alla piana verso altre collinette coltivate a granoturco. Una serata splendida con il giusto tepore di giugno, senza afa, con un bel venticello che allontanava le zanzare. Tutto perfetto, tranne che la nazionale italiana era impegnata in un’importante partita dei mondiali. Veniva voglia di mettere la televisione sul palco e guardare la partita, bevendo una birra con il pubblico. Purtroppo dovevamo recitare. Arrivò il pubblico che, ignorando lo sport nazionale, riempì le sedie.
Per cambiarci dovevamo scendere dietro il palco, vicino alla porta di ingresso della casa. Iniziammo lo spettacolo, il simpatico proprietario ci chiese se poteva guardare la partita in cucina o se dava disturbo. Gnagno gli disse «basta tenere il volume un po’ basso e non ci sono problemi», poi aggiunse «siccome non recito subito, posso guardare l’inizio?».
Andò a finire che ci alternammo dalla scena alla cucina. Il proprietario, prima con il rispetto che si deve alle persone di spettacolo, poi con la famigliarità che c’è tra amici di bicchiere iniziò a servire vino, pane biscotto, salame, soppressa, sottaceti, poi il caffè, la graspa e anche il rasentin.
Lo spettacolo andò benissimo. In scena ci aggiornavamo sulla partita, alla fine qualcuno cominciò ad aggiornare anche il pubblico, aggiungendo parole sportive non presenti nel copione: del resto nessuno poteva obbiettare niente perché, come già detto, non avevamo un copione. Fu una serata bellissima. Al termine dello spettacolo ne uscimmo vincitori, al contrario della nostra nazionale.

Un’estate dovevamo recitare in Piazza delle Poste, uno dei piccoli salotti all’aperto della nostra bella città.

Il palco era pronto, noi anche, mancava poco all'inizio, ma cominciò la pioggia. Non era battente, ma fastidiosa, e ci impedì di fare lo spettacolo. La gente per un po’ attese, poi cominciò a girovagare, chi andando verso il Duomo, chi verso Piazza dei Signori. Mangiammo una pizza nella speranza che la pioggia smettesse, ma purtroppo non fu così. Un paio di noi, senza dire niente, iniziarono una gag sotto i portici della piazza, cominciò ad arrivare gente. Ai due si aggiunsero altri di noi, i tecnici stesero un telo nero improvvisato legandolo tra una colonna e una inferriata. Cominciarono ad arrivare sempre più persone, presi alla sprovvista qualcuno di noi si ritrovò tra il pubblico, e da lì inizio la propria parte facendosi largo tra la folla. Creammo qualcosa di nuovo, semplice e spontaneo. Era percepibile una sensazione diversa tra il pubblico, non si trattava di divertimento, erano sorrisi di affetto. Ci volevano bene, erano con noi, capivano e apprezzavano la nostra spontaneità e le nostre capacità. Potevamo sbagliare senza deluderli.



Piazza degli Scacchi a Marostica è incantevole. Metteteci un palco, una sera d’estate luccicante di stelle e noi sopra, al palco intendo, non alle stelle. Da lì vedevamo teste ovunque, fitte come funghi chiodini quando spuntano sulle piante a ottobre. Davanti a noi il castello illuminato, a fianco i portici e la gente che rideva, alcuni sorseggiando del vino comperato nei bar, che per l’occasione spensero le luci. Quella sera non furono le torri bianche o nere, gli alfieri o le regine a duellare per cercare di mettere in scacco il re. Ci riuscimmo noi dal palco a dare scacco matto in quella piazza.

Il maggior numero di spettatori lo incontrammo per colpa di Cristoforo Colombo. Il genovese che per errore sbarcò in America nel 1492. Non pensava di certo a noi quando approdò con le sue caravelle. Cinquecento anni dopo, per merito, o colpa sua, ci scritturarono per animare l’incontro regionale dell’azione cattolica dentro al palazzetto dello sport di Vicenza. I posti a sedere sono 1700, quelli in piedi non si contano. Non avevamo mai visto tanta gente in un posto solo, giovani rumorosi, chiacchieroni e casinisti, beati loro. Per commemorare Colombo, e il suo famoso uovo, a Loris venne un’idea. Come al solito brillante e un po’ allucinogena. In effetti non abbiamo mai indagato sull’origine dei suoi spunti, e forse non è il caso. Conviene pensare che ci sia della genialità dentro quel metro e novantotto. In pratica far vivere al pubblico l’arrivo dei conquistatori. Nel dettaglio, i conquistatori erano Loris, Gnagno e Fayo. Indossavano un sacco a rettangolo di tessuto nero elastico. Camminavano a gambe e braccia divaricate e sembravano delle gigantesche amebe nere. Il conquistato ero io. Mi alzavo dal pubblico per presentare la nostra scena e poi venivo rincorso dalle gigantesche amebe fino a ripresentarmi sopra a una barca stilizzata, la Santa Maria. A fianco di questa barca c’erano Fayo e Gnagno con due barchette lunghe un metro fatte in carta e sorrette da bretelle. Le barchette erano sfondate in modo che i due potessero stare in piedi e remare. Loro erano la Niña e la Pinta. C’era il problema di amplificare l’audio. I responsabili avevano pensato che disseminando di microfoni gelato la zona dove si recitava il problema venisse superato. Non fu così e nulla di quello che dicevamo venne capito. Non che importasse molto dato che, a parte un momento di stupore iniziale provocato dalla vista delle amebe giganti, i giovani nel palazzetto ci ignoravano beatamente dedicandosi a socializzare tra loro. Il nostro Colombo volò all'interno del palazzetto ignorato da tutti. Ci consolammo spendendo la sera stessa, in trattoria, tutto il rimborso pattuito: non di soli successi vive l’attore.

Andammo a Trieste, al Teatro Miela, per il Festival del Triveneto e dell’Istria.
James Joyce non pensava di certo a noi quando scrisse l’Ulisse, ma in qualche modo Leopold Bloom assomigliava al nostro Loris.
Partimmo di mattina presto con furgone a auto. Allestimmo la scena e poi tutti al ristorante. Lo spettacolo era al pomeriggio, quello che si chiama una matinée. Il teatro era bello, moderno e capiente; in un corridoio, verso i bagni, c’era un piccolo quadro coperto da una tendina scorrevole. Aprii la tendina e la richiusi in fretta: erano ritratte due facce di donne, in mezzo a loro un pene, e loro ci stavano giocando.
Asterix avrebbe detto: «Sono Pazzi Questi Triestini».
La scena era pronta ed entrammo subito nei camerini a vestirci.



 Durante la replica Loris era molto arrabbiato, si lamentava del fatto che in sala c’era un signore nelle prime file che non si muoveva mai. Secondo lui stava dormendo. Questo ci irritò molto, non ci era mai capitato che qualcuno dormisse in sala. Alla fine, quando si accesero le luci, scoprimmo che il signore era una statua di legno di Joyce, la mettevano seduta tra il pubblico prima di uno spettacolo.



Parlarono di noi anche nel Piccolo il quotidiano di Trieste. Facendo i conti scoprimmo che l’incasso dello spettacolo non copriva le spese, ma avevamo mangiato bene e passato una splendida giornata, con tanto di foto ricordo con cuochi e camerieri.



Ci chiamarono alla sagra di Torri, importante centro vicino a casa nostra.
La sagra di Torri era famosa perché a quella data pioveva sempre. Quell'anno no, il tempo era splendido, anche se per precauzione si erano attrezzati con un grande tendone messo a disposizione del palco, a fianco delle cucine e delle panche per la gente che veniva a mangiare. 
Replicavamo Un Due Tren Tren!!

Tutto era pronto per l’inizio previsto alle 21. Visto che eravamo vicino a casa accettammo la proposta degli organizzatori di un rimborso a percentuale, contavamo sul nostro affezionato pubblico.
Alle 20 arrivò una bufera di vento e pioggia, a scrosci, a torrenti, a fiumi. Continuò così per più di un’ora. Arrivarono dodici persone. Ma The Show Must Go On come ci hanno insegnato i Queen, e così fu.
Il pubblico reagì in modo inaspettato, quasi sentissero la responsabilità di enfatizzare la serata e di caricarci di entusiasmo, entrarono anche i cuochi e tutti i volontari delle cucine.
A detta di Ciano, il nostro critico portatile, oltre che supertecnico audio, fu la nostra migliore replica.
A fine spettacolo dei cuochi portarono in sala il cibo pronto che sarebbe stato avanzato, ci aprirono dei tavoli e a tutti fu offerto da mangiare. Quella sera fini così: sotto un tendone, con l’acqua che continuava a cadere. Mangiammo insieme, attori, pubblico, cuochi e camerieri. Al pubblico venne anche restituito il biglietto, ma nessuno prese i soldi, noi rinunciammo al compenso a favore di un gesto di cortesia per il cibo mangiato. L’anno dopo non ci chiamarono alla sagra che riuscì molto bene, senza pioggia e con molta affluenza di gente. Gli organizzatori ci scrissero una lettera, e nella lettera c’era un assegno di 500mila lire, come compenso per la sera dell’anno prima, sorprendente.

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