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domenica 26 febbraio 2017

capitolo 4 debutto Homo Ridens

Teatro n.1

Mani Tese ed il Cinema Lux furono gli elementi che, combinati insieme, diedero origine alla nostra storia, oltre alla cinepresa fantastica di Ivano.

In qualità di gruppo Mani Tese pensammo di organizzare una serata di beneficenza, proponendo una compagnia teatrale.

In qualità di gruppo di gestione del cinema Lux approvammo la proposta all'unanimità.
E, visto che con l’invenzione di Ivano erano nate delle improvvisazioni, proponemmo alla compagnia ospite di poterci esibire in una breve serie di gag.

Un mese prima dello spettacolo ci abbandonarono, lasciandoci in balia di noi stessi.
La reazione fu immediata: «faremo da soli» Ivano dixit.





Così ci trovammo ogni sera al Lux. Vivevamo là.
Ci spartimmo i ruoli, una parte c’era per tutti e ciascuno aveva un compito, per piccolo fosse.
Le scelte non erano semplici e a volte discutevamo animatamente, tutti d’accordo invece quando Mozz ed Elio provarono ad esibirsi. Tutti insieme, loro compresi, decidemmo che sarebbero stati degli ottimi assistenti di scena, dietro le quinte, molto dietro.

Eravamo una trentina, dai quattordici ai diciannove anni, e agivamo in completa anarchia. Mentre qualcuno, Capo e Ivano, improvvisava, gli altri facevano di tutto. In quella confusione bisognava prestare particolare attenzione a Carletto e alla sua mania di mettere il gioiello ovunque e in ogni momento.

Carletto ed un suo amico una sera andarono ad una festa. Due ragazze alla cassa chiesero i soldi per entrare, Carletto spostò l’amico, si avvicinò al bancone, tirò giù la cerniera e disse «basta?»
Bastò per entrambi.

Era pericoloso averlo a fianco, specie se raffreddati. A mettere le mani in tasca per prendere il fazzoletto, si rischiava la sorpresa. Per non parlare poi dei boccali di birra, che dovevano sempre stare a portata d’occhio. Per fortuna una sera arrivò in bici e da allora continuò a pedalare dentro il teatro durante le prove.

Nel branco c’erano anche le ragazze, ma erano ancora giovani, bisognava aspettare che crescessero, dovevamo accudirle. Il compito fu affidato al più serio, l’unico del gruppo nato maggiorenne: Bano, l’addetto al vivaio.
Gli riuscì bene, visto che una di queste pianticelle amorevolmente cresciute divenne sua moglie, come capitò anche a Lucio.



Lucio che odia i traslochi da quando dovette buttare la serie completa degli originali di Hulk della Marvell. Da non dormirci la notte.





Parlava tutte le lingue del mondo, diventava chiunque: un mimo francese, un capostazione spagnolo, un karateca nipponico, un barbiere folle, altro che Uno, nessuno e centomila, poteva essere l’umanità intera.

Poi c’ero io, il terzo intellettuale, dopo Ivano e Bigi.
Se Loris era Gastone, io ero Paperino. Non ero semplicemente sfortunato, no, la mia sfortuna era una sicurezza, una garanzia: arrivava sempre, in ritardo a volte, ma arrivava. Tenacemente sopportavo questa peculiarità e sopportavo anche l’altra peculiarità: la chirurgia.
Fui operato numerose volte, alle orecchie, agli occhi, al naso, alle gambe, ormai era una consuetudine. Nessuno più mi chiedeva come stavo, e questa mancata domanda si poteva considerare una forma di cortesia.

Ogni gruppo di amici, si sa, ha una colonna sonora che lo contraddistingue, una musica che lo accomuna. Ciano, il romantico, era la nostra colonna sonora. Scopriva musiche incredibili, da Pat Metheny, quando ancora lui stesso non sapeva che da quell’American Garage sarebbe partito verso una carriera splendente, fino al James Taylor Quartet, perdonandoli per la colonna sonora di Starsky & Hutch.
Ciano frugava nelle musiche degli anni ‘50 e scopriva Harry Belafonte con Matilda, noi con Allegria dei re gitani Gipsy Kings scuotevamo i fianchi, per poi saltare come caprioli in Everybody Needs Somebody dei Blues Brothers.
Ciano ci serviva la colazione con i Supertramp e Breakfast In America, ci costringeva a cantare con Aquarius del film Hair, ci faceva volare alto con gli Eagles nel loro Hotel California e alla fine, stanchi, ci salutavamo con The End dei Doors. Per citarne solo alcuni.
Alle feste Ciano rimaneva ore con i suoi dischi in vinile e i due piatti.
Con le cuffie cercava il ritmo giusto per mixare i brani, attorno a lui il caos, nelle sue cuffie un’oasi di serenità.



Come detto, le ragazze erano presenti, anche se non sempre partecipi alle attività più folcloristiche.
Kate, un alto cespuglio, magra, leggermente distratta, inseparabile amica di Fede.
Fede, un piccolo cerbiatto con quattro grandi occhi, due per sorridere e due per farti abbassare lo sguardo. Attorno a queste stelle c’era un piccolo firmamento: Capa senza Seba, Anna, Lucia, Antonella, seguivano il gruppo come i pesci pilota lo squalo. Uno squalo buono che non ha mai ferito e morso nessuno.

Alla fine, stremati dalle prove, riuscimmo ad arrivare ad una proposta di circa 90 minuti, composta da scene in parte inventate, in parte lette su certi giornalini dell’Azione Cattolica, ed in parte affidate al caso.
La risorsa maggiore fu la parodia. Venne applicata anche al libro Cuore di De Amicis, da cui estraemmo alcuni racconti basati sul personaggio di Ferruccio. Contavamo molto su Ivano e su Capo.


Venne disegnato il primo orrendo manifesto: Mani Tese presenta HOMO RIDENS spettacolo di beneficenza, 22 dicembre 1984.




Impiegammo molto tempo per definire la scenografia, la quale doveva essere modulabile, leggera, economica, e soprattutto ignifuga.
Alla fine la proposta di Gnagno convinse tutti, anche i pazzi responsabili del Lux: delle belle colonne in polistirolo appoggiate sul palco ad incastro in modo da costruire una parete mobile. Sul fatto che non fosse una scenografia propriamente ignifuga si sorvolò.

La sera prima dello spettacolo un gruppo scelto si offrì di dormire per sorvegliare gli impianti.
Avevamo disposto i fari e anche l’amplificazione: i fari ce li aveva prestati Checco, per amplificare le voci sul palco tendemmo un filo in mezzo alla scena e su quel filo vennero appesi come salami tre microfoni.

Quella notte dormimmo poco, anche perché passammo parecchio tempo a cercare di sintonizzare un televisore portatile in modo da vedere qualcosa di erotico, ci saremmo accontentati anche di una tetta. Ognuno era dentro al proprio bozzolo di coperte o al sacco a pelo, la maggior parte di noi era vestita. 

Bano invece, il più raffinato, sfoggiò il suo pigiamino indossato nudo. Dormiva senza mutante, una volta tolte le aveva appese all’antenna tv. Non le ritrovò più.

Si chiacchierò molto quella notte, come fanno tutti i sognatori prima di addormentarsi.

Arrivò il giorno dopo e superammo quasi indenni la mattina di prove; tranne che per un equivoco tra Raffaele e Bigio, equivoco sorto su come si dovesse muovere l’occhio di bue per simulare la luna piena che però era calante.
Raffaele chiarì il concetto afferrando uno dei microfoni-salame e spiegando a pieni polmoni e con dovizia di particolari a Bigio cosa fare, e non solo con l’occhio, ma anche con le altre parti del povero bue.



Nel pomeriggio la tensione crebbe fino ad arrivare alla frenesia. Il cinema teatro di allora conteneva 720 posti distribuiti tra platea e galleria, all'apertura delle tre porte di accesso il Lux fu investito da una marea umana. Alcuni fortunati trovarono posto a sedere, tutti gli altri si arrangiarono in qualche modo.

E finalmente iniziammo. 

Il sipario si aprì al suono di "Freeze Frame Lyrics by J. Geils Band" e su Carletto che, in bretelle gialle, ci presentò.
Ma fu Ivano a condurre all'assurdo la serata.

La cinepresa fantastica era diventata reale.
Fayo, in veste di operatore, con camice bianco e cinepresa di cartone, apparve a sinistra, sopra il palco. Ivano entrò, da destra, simulando un tiro alla fune con un microfono immaginario e iniziò a presentare il suo talk show, subito interrotto da Gnagno, il quale, nascosto tra il pubblico, saltò in piedi.

«Ma cosa fate, state qui a sentire quel che dice questo? Ma siete tutti massificati, state lì seduti ad ascoltare quello che dice questo presentatore, non vedete che è tutto finto?»
Il pubblico era sorpreso, intanto Ivano chiamò la valletta, che entrò portando una scacciacani su di un vassoio, Ivano la prese, mirò a Gnagno e sparò. Gnagno cadde. Da una porta laterale entrarono Marco e Mozz spingendo una lettiga con un lampeggiante giallo alimentato da una batteria da macchina.

Caricarono Gnagno e lo portarono via. Fayo, continuando a riprendere, sollevò un cartello con scritto “APPLAUSI”.

E la gente applaudì.



Il pubblico entrò così nel nostro mondo assurdo, vittima della nostra irriverente fantasia.

La serata proseguì con gli ospiti dello strampalato talk show, arrivò un improbabile Cocciante imitato da Carletto, un bucolico contadino con tanto di forca interpretato da Capo.
A me e a Loris venne chiesto di interpretare un ruolo imbarazzante: entrare tra il pubblico imitando due travestiti. Ci truccò un’amica estetista, e lo fece bene, tanto bene da farci guardare con sospetto per lungo tempo.
In quell’occasione capii perché le donne si depilano le gambe: lo scoprii togliendomi le calze a rete nere.
Poi le farse: La piccola vedetta lombarda tratta da Cuore, in cui Ferruccio, interpretato da uno scatenato Ivano, scosse la sala. Soprattutto con il suo ingresso in biciclettina in mezzo alla gente. Il monello perfetto. Le battute più significative quando Ferruccio mordeva la coscia del narratore, facendolo gridare di dolore:
«ma cosa gridi?»
«mi fa male la coscia!»


«ma coscia vuoi che sia»

L’orrendo gioco di parole, non si sa perché, divertiva.
Poi il narratore affranto fingeva di sputare pronunciando una parola, Ferruccio con stupore si puliva la testa bagnata e guardando la mano diceva «Saliva???» per ottenere come risposta «No, scendeva!!!»
Battute terrificanti, eppure riuscite.


In ogni scena si tentava di fornire una morale, alcune volte un po’ azzardata come nel caso della parodia di Cappuccetto Rosso, ovvero Cappuccetto Rozzo.

La fiaba iniziava con il narratore il quale, da sopra una scala a libro, tentava di raccontare la vera storia di Cappuccetto facendola interpretare dagli attori, i quali però non erano quelli voluti, ma i possibili. La timida e graziosa fanciulla di nome Cappuccetto Rosso venne annunciata dalla musica Gonna Fly Now di Rocky Balboa. E nello stesso modo in cui Stallone sale le gradinate entrò Fayo, 90 chili, parrucca di riccioli biondi, gonnellino e mantellina rossa.
Viste le sue dimensioni, il narratore si trovò costretto a raccontare la fiaba di Cappuccetto Rozzo. Ma a quel punto il lupo non avrebbe più avuto senso, sarebbe fuggito di fronte a Cappuccetto.
Quindi, attrezzato Loris con un cappello a forma conica, si ottenne un missile al quale affidare il compito di sopprimere Cappuccetto.



Un momento particolarmente comico quando Cappuccetto Rozzo incontrò la nonna, cioè Ivano:

«Nonna, ma che occhi grandi hai»
«La vecchiaia Cappuccetto, la vecchiaia»
«Nonna, ma che orecchie grandi hai»
«La vecchiaia Cappuccetto, la vecchiaia»
«Nonna, ma che pelo lungo hai»


«Ciò Cappuccetto, sei venuto a trovarti o a rompermi i marroni???»

Per questa battuta discutemmo un po', i puristi volevano utilizzare "rompere i coglioni", ma i più moderati, considerando il bigottismo imperante, suggerirono la soluzione vegetale. Infine dunque si disse "maroni".

Un momento di incertezza lo raggiungemmo nel finale quando la nonna e Cappuccetto Rozzo stesero il lupo-missile.


Entrambi aprirono il vestito esibendo il simbolo del pacifismo e gridando insieme «contro la Nato e il Patto di Varsavia».



Nessuno di noi ha mai capito perché, né noi né il pubblico, che comunque applaudì.
Nel finale proponemmo un balletto classico in tutù.
Sulle musiche de La morte del cigno di Ciaikovskij un drappello di ragazze cercava disperatamente di imitare delle vere ballerine.
Nel corpo di ballo in tutù, calzamaglia e corpetto rosa, nella sua imponente statura, figurava Loris.
Per trasformarsi in ballerina due noci a simulare il seno: Olivia, la fidanzata di Braccio di Ferro, sarebbe stata più fascinosa.
Quanti del gruppo non si esibivano decisero, per scherzo, di lanciare le scarpe alla fine del balletto. Purtroppo il pubblico li imitò, tirando di tutto sul palco.

Finì così, Carmen Consoli direbbe Confusi e felici, ma in realtà eravamo solo contusi e felici.

Mani Tese di Bassano del Grappa ci chiese di fare lo spettacolo anche da loro.
Bassano del Grappa, già il nome suggerisce possibili eventi etilici.


Qualcuno suggerì di usare uomini sandwich per la pubblicità sul famoso ponte. Il percorso era semplice, da un lato all’altro del ponte. I due prescelti furono Bigi e Scalz.

Eseguirono alla lettera gli ordini, partendo da destra, Grapperia Nardini, verso sinistra, Grapperia Bassanina.

A fine spettacolo andammo a recuperarli: con i tabelloni avevano formato una rudimentale canadese e ci dormivano dentro, qualche passante aveva messo degli spiccioli nel berretto di uno di loro.

Si ripresero con calma, scusandosi se a causa del freddo avevano preso sonno.

Poi il Lux, con nostro stupore e amarezza, venne chiuso.

Troppo tardi però, perché gli Homo Ridens ormai erano già usciti allo scoperto.



Arrivò l’estate e ritornò la voglia di girare.

sabato 18 febbraio 2017

capitolo 3 Edmondo de Amicis


Punto di riferimento n.2 IVANO


Edmondo De Amicis nel 1886 scrisse Cuore. Dentro quel libro viveva Ferruccio, ma Edmondo aveva sbagliato nome: in realtà voleva parlare di Ivano.


Ivano, per noi, non è un nome, ma una linea di pensiero. Le sue massime, tra cui poggiano sul nulla le basi della tua esistenza hanno riempito la nostra esuberante adolescenza, senza mai capire cosa volessero dire. La sua canzoncina “vorrei vorrei una casetta e poi, vorrei una comune per star con voi…”, con lo strano finale “cloaca donde vien for la caca colore del moca cacao cacao …”, ci portava a credere di essere un gruppo indistruttibile

Ivano d’inverno indossava un cappottino corto a spina di pesce nelle tonalità del grigio, sotto, una giacca di velluto marrone a coste, d’estate si toglieva il cappotto. Capelli rossicci e ricci, molto ricci, la faccia spruzzata di efelidi. Poeta bohemien di provincia, scrittore del paradosso.


Assoluto, incomprensibile, gabbiano che, alla faccia di Jonathan Livingston, volò verso l’infinito e oltre insieme a Buzz Lightyear di Toy Story. 





Inventò il laidismo, corrente di etica villico-scic, che venne seguita da molti e della quale si scrisse un piccolo manuale: Laidismo origini e sviluppi, ovvero la risposta del gruppo selvaggio al galateo.


Fu anche scrittore di poesie nel libro Inanis Cogitatio, pensiero vuoto, libro auto prodotto in tre: Ivano, Bigi ed io.


Ventidue copie vendute, riuscimmo a pagare la carta, rigorosamente riciclata.




Era il 1983 nevicò moltissimo, l’intero paese fermo, silenzioso e candido.

Camminavamo, Ivano con il suo cappottino grigio a spina di pesce e un foularino al collo per il freddo, e io al suo fianco. Indossavo dei doposcì dalla provenienza incerta, bianchi a disegni azzurri, un po’ più grandi del mio piede, imbottiti in punta con del cotone e l’inseparabile impermeabile nero, dal tessuto strano che emanava cangianti riflessi blu-violacei.

Sotto l’impermeabile un maglione di lana a collo alto, con le trecce sul petto, fatto con i ferri da mia madre. Usavo quei maglioni nonostante il prurito. Quando si infeltrivano mia madre li disfaceva, per poi ricostruirli, simili. Senza saperlo indossavo sempre la stessa lana, che pungeva sempre allo stesso modo. Ultimo accessorio, una sciarpa di lana lunga due metri, a volte bianca, che mi circondava le spalle. Nel suo passato, probabilmente era stata un maglione.

Parlare di Ivano significa parlare di Biblioteca. Li si passavano i pomeriggi a leggere i giornali, o meglio Il Giornale e Repubblica, discutendo di film, politica e libri. A volte in compagnia di Mara, la bella, brava e paziente bibliotecaria che ci offriva pure il caffè. Discutevamo di tutto senza parlare mai di calcio o di donne. Eravamo ribelli convinti ed intellettuali approssimati. I pomeriggi passavano leggendo Sartre, Fromm, Bucowski, Kafka, Kundera e molti altri anche se qualcuno del gruppo, non visto, leggeva i fumetti di Asterix e Mafalda.

                                                       



L’imperatore degli scrittori era Hermann Hesse: Siddharta, Il lupo nella steppa, Narciso e Boccadoro o Il gioco delle perle di vetro. Essenziale leggerli. E poi Il Profeta di Gibran Khalil Gibran, lo citavamo tra noi come nelle osterie si batte il fante e si tirano sacramenti. Le sere si passavano al bar Liolà e quando il bar era chiuso suonavamo il campanello all'appartamento del proprietario che ci viveva sopra. Entravamo in casa e ci offriva caffè, e i tramezzini avanzati del giorno prima. In effetti c’era anche un altro motivo per andare a trovarlo, sua moglie Roberta sperando di incontrare anche la sorella gemella Silvia.
Quante fantasie riguardo alle gemelle, piccoline, lunghi capelli ondulati, molto simpatiche e disegnate da Milo Manara.



Ivano inventò il Laidismo, il Laidismo poi si estese a tutti.


Tutto ebbe inizio con il lancio, da parte sua, di alcuni peli inguinali, i suoi, verso il tramezzino di uno del gruppo al Liolà. La reazione fu immediata: gettando sul tavolo il tramezzino, l’affamato avventore esclamò «e adesso mangiatelo tu!».
Ivano non si limitò a mangiarlo, prima raccolse il ciuffetto di peli, aprì il tramezzino e lo farcì. Lo mangiò, con calma e assaporandolo.
«Sei un maiale!»
«Per cortesia non offendere, sono solo un laido.»
Non sapendo bene cosa significasse, al momento nessuno recriminò. Più tardi si giunse alla comprensione e diffusione del Pensiero Laido fino a che si estese a una specie di filosofia di vita, o di atteggiamento sociale.


Fu sconcertante.


Nacque l’idea di organizzare una cena laida, ne fu fatta una, e poi l’ultima a casa di Schizzo.
Accaddero cose che provocarono la fine di quella filosofia di vita, anche se un breve strascico riemergeva ogni tanto.

Alcune scene della cena si possono raccontare.
Non sapendo dove mettere il formaggio grattugiato venne scelto di usare la mia scarpa da ginnastica destra, la sinistra, per il momento, rimase allacciata al piede.
Naturalmente i lanci dei peli inguinali continuarono, fornendo nuovi ingredienti da inserire in ogni portata, dall'antipasto al dolce. Anche le ragazze partecipavano con entusiasmo alla fornitura.

Ivano superò se stesso quando, in seguito ad una improvvisa risata, uno spaghetto, invece di scendere nell’esofago, decise di sperimentare l’uscita del naso. Con la pasta penzolante si avvicinò al bicchiere di Fayo. Sfilò lentamente lo spaghetto, lo sciacquò e lo mangiò. A Fayo non restò che bere il proprio vino accontentandosi.
All’arrivo dello zucchero fu richiesta anche la mia scarpa sinistra.
Quella sera collaudammo per la prima volta il perfetto metodo laido per mangiare un dolce, meglio se secco e senza crema, anzi, obbligatoriamente senza farcitura. Arrivò la torta margherita, preparata con amorevole cura dalla madre di Schizzo, e Ivano impose che ci mettessimo in piedi ed in cerchio.
Contò fino al tre, la lanciò in aria e tutti, a mani nude, si protesero per strapparne un pezzo.
La torta non raggiunse terra, venne dilaniata in aria. Da allora si fece sempre così con torte pasquali, colombe, pandori, panettoni, nostrane fregolotte.

Ivano fu anche il nostro erborista, rollava e degustava erbe che prima faceva seccare con cura appendendole sui fili da stendere nell’orto di casa.
Collaudò tutti i tipi di tè e tisane che gli fornivamo. Sperimentò gli effetti di piante e fiori da giardino miscelandole con cura. Rimase piacevolmente soddisfatto delle foglie di fico seccate e macinate. Forse le sue stranezze e le sue bizzarre idee erano provocate da questi esperimenti, sì, in effetti potrebbe essere così

Andavamo a sagre, ma capitava di annoiarci. Sua l’idea di giocare a nascondino, una volta si nascose così bene che alla fine andammo a casa abbandonandolo sul posto. Tornò in autostop a notte fonda e non ci ringraziò mai di questa avventura. Andò meglio a Bigi che fermò una macchina con quattro tipe a bordo, lo presero su tirandolo dentro dal finestrino. Lo rivedemmo una settimana dopo, e non ci ha mai raccontato niente.

Non esiste Ivano senza Bigi, i gemelli diversi, eppure simili. Il secondo gigante del gruppo, di 2 centimetri più basso di Loris, comunque imponente.


Lui, la sua vespa 125PX bianca e la sua giacca a vento imbottita color grigiazzurro.




Un sognatore o meglio; il sognatore. Dopo le medie Bigi disse: «Io vado a lavorare, col cazzo che vado a scuola», un anno dopo: «Io vado a scuola, col cazzo che vado a lavorare».

Andò a scuola, e non si mosse più. Ora insegna.



Bigi e Ivano si capivano, erano l’isola del gruppo, un po’ staccati da tutti, un po’ alla deriva, o a seguire l’onda. Una sera d’inverno uscirono tardi dal Liolà, il paese vestito di nebbia, per proteggersi dal freddo. Stavano per salutarsi quando entrambi fissarono una strana luce sospesa nell'aria. Immobile e nello stesso tempo viva. Pulsava bagliori rossi con ritmo costante.
«Bigi, guarda, cos'è?»
«Un ufo, un ufo, sono arrivati!».
Tornarono al Liolà dove era rimasto solo il proprietario.
«Vieni, vieni a vedere, c’è un ufo.»
«Sono arrivati, cambia tutto, tutto cambia.»
«Era ora!»


Non era un ufo e non cambiò nulla, tranne il numero di birre che da quella sera poterono bere al Liolà.


Era la luce di sicurezza sopra la torre dell’acquedotto.

Il mondo del gruppo invece cambiò veramente con un gesto, quando Ivano piegò il braccio sinistro afferrandosi la nuca, con la mano destra iniziò a girare una manovella inesistente che poteva essere conficcata nel gomito sinistro. Inventò una fantastica cinepresa. Ci riprese per gioco e cominciammo a creare storie, movimenti e situazioni, adeguando il tempo delle azioni alla velocità della manovella immaginaria, muovendoci in sincronismo perfetto con la sua mano. Creavamo duelli schivando pallottole, precursori dello slow motion.

Prima di Matrix, prima dei fratelli Wachowki, molto prima che diventassero due sorelle. Sembrava quasi che il tempo si fermasse per davvero, e i nostri corpi vivessero un ritmo proprio, accelerando o rallentando le nostre azioni.


La fantastica cinepresa scatenò la fantasia di tutti ma in particolare fu con Capo che agì come detonatore di potenzialità inespresse.

Punto di riferimento n.3 CAPO

Il suo nome non esiste, esiste Capo. In realtà non c’era solo lui con noi, ma anche la sua famiglia, il burbero e bonario papà, la dolce e molto credente mamma e la sorella Capa. La mamma di Capo, quando c’era un pellegrinaggio a Medjugorje, si faceva sempre portare a casa acqua benedetta a taniche, da usare per fare tisane e tè ai figli.
Anche a noi capitò spesso di bere quel tè benedetto.


Sperava che questo servisse a tutelarci dal maligno.

Ma il maligno si manifestò la prima volta proprio con Capa. Era piccolina a quel tempo, in quel villaggio A.C.L.I. di case simili tutte abbracciate in cerchio tra loro, a formare una grande rotatoria. Al centro un’aiuola a forma di otto.





Lì ci trovavamo tutte le sere d’estate per giocare. Uno dei giochi che ci piaceva era il nascondino a coppie: un ragazzo, una ragazza. Chissà perché ci piaceva tanto. Fu per colpa di Seba che lo giocammo l’ultima volta.


C’era un salice piangente con i rami sporgenti che dalla recinzione in cemento arrivavano a terra. Erano fitti e creavano uno spazio a mezzaluna adeguato a nascondere due persone: la coppia Capa e Seba si nascosero in quella nicchia.


Terminata la conta tutti rimasero zitti e nascosti. Fino a quando il silenzio fu rotto dal grido di aiuto di Capa «mamma, Seba mi ha messo la mano nella mona!!!».

Nel dialetto veneto mona ha vari significati, è la definizione di persona sciocca o tarda, te si mona, l’è on mona, ma anche di persona simpatica: non sta far el mona!


È il posto dove si mandano le persone antipatiche: va in mona! ed è anche un luogo dove andare, ma con doppio significato: il primo riferito a persona che ha avuto una crisi, anche economica, l’è ‘ndà in mona, il secondo con stessa pronuncia ma col significato di azione riproduttiva. Infatti è anche un luogo anatomico di proprietà delle donne di cui l’uomo gradisce l’usufrutto. In effetti, nel dialetto veneto la parola mona è versatile ed è fondamentale, più delle bestemmie usate come semplice punteggiatura.

Dopo l’esclamazione di Capa andammo tutti a casa e non si giocò più a nascondino in coppie. Seba non venne più salutato per mesi e venne mandato in mona e definito tale per lungo tempo..


Capo sa raccontare barzellette come nessuno mai. In particolare il suo pezzo forte è una storiella che apre immediatamente le porte degli inferi a chi la racconta e a chi l’ascolta. Non basterebbe una cisterna di acqua benedetta di Medjugorje per purificare chiunque la ascolti.
Non è volgare, non si riferisce al sesso, ma è esplicito linguaggio blasfemo, dove all'inizio si rimane impietriti, poi trasportati in modo irresistibile nelle scene raccontate. È il breve, ma a volte lungo, racconto notturno di una persona che non riesce a dormire a causa di un molestatore che continua a suonare il campanello.





La trama è inesistente, un semplice pretesto. La parte centrale del racconto è la quantità di bestemmie, di un solo tipo, che poi muta nel finale. È una cosa irresistibile che nessuno potrà mai ascoltare, tranne pochi e scomunicati amici.




Capo una volta ci accolse tutti a casa sua perché era da solo. Organizzò una specie di cena con tanto di grigliata, e la nostra versione di sangria ricca di gin, vodka, vino rosso, frutta, ginger, tracce d’acqua. Così tanto alcolica che uno di noi si ubriacò mangiando la frutta. Questo fu il primo degli errori, l’altro fu di non restare all'aperto. Arrivò il dolce, che come di consueto fu lanciato in aria dentro casa. La cucina non era molto grande e non fu facile sbranare al volo la torta, urtammo la mobilia, qualcosa si ruppe. In preda al panico Capo urlò «basta! io devo viverci qua dentro.»


In colpa, e per sottolineare la nostra amicizia, ci scatenammo in un feroce e gridato «e per Capo IP! IP!!..»


Quel giorno nacque un nuovo grido di battaglia, purtroppo per Capo.
Non so chi fu il primo, né perché si decise di sostituire l’hurrà!!.


Forse Capo aveva raccontato la sua famigerata barzelletta, oppure avevamo bevuto troppa sangria e dopo «e per Capo IP! IP!!» tutti in coro gridammo a pieni polmoni il bestemmione della barzelletta. La bestemmia urlata salì dritta verso il cielo come un missile terra/aria, poi esplose ricadendo sul vicinato.

Il villaggio A.C.L.I. non è molto grande, tutti conoscono tutti e la famiglia di Capo è notoriamente, o almeno era, timorata di dio. Quel feroce bestemmione gridato al cielo da un gruppo di scalmanati adolescenti fu sentito da tutti.


Da quel giorno ci guardarono con feroce e benedetto rimprovero.

Nell'elenco delle sue doti, molte a dire il vero, non compariva l’affidabilità.
Avevamo una data per un nostro spettacolo in un teatrino della nostra città. Non era stato facile convincere la signora Assessore, eravamo più giovani che noti, ma stavamo crescendo. Alla fine avevamo ottenuto la data.
Purtroppo, un paio di settimane prima dell’evento Capo ci comunicò che non poteva assolutamente esserci, che era molto dispiaciuto ma un imprevisto grave non gli consentiva di partecipare.


Con rassegnazione ci toccò chiedere un incontro all'Assessore che ci aveva invitati.  Le donammo un mazzo di fiori e ci scusammo per l’imprevisto dovuto a gravi impegni di uno di noi non sostituibile.


Oltre a raccontare barzellette sacrileghe e recitare, Capo suonava la batteria.
La sera dello spettacolo saltato, il gruppo si riunì comunque e andammo in un locale. C’erano quattro tipi che suonavano. Non conoscevamo il chitarrista, né il bassista e neanche il cantante, ma il batterista sì.
Non fu la prima, né l’ultima volta che ci fece arrabbiare, ma fu la più irritante.


Lui a rullare la batteria e noi in piedi, a due metri, che lo guardavamo con le mani in tasca. Ci sorrise, timidamente. Avremmo voluto fratturarlo.

La trasformazione di Capo avvenne con la fantastica cinepresa. La bestia da palcoscenico che era in lui esplose. Incontenibile, estrosa, irrefrenabile.


Per questo gli era perdonato tutto, la sua simpatia lo salvò mille volte dalle vendette e dai rancori.

Come tutti poi Capo si innamorò. Capita di litigare, ma a tutti capita di cercarsi di nuovo. Capitò anche a lui, ma fu un disastro. Arrivò a mani vuote alla sua porta per conciliarsi, e vide un mazzo di fiori posato su una sedia.
                                      


Pensando di essere gentile nel raccoglierlo e consegnarlo, suonò il campanello. Lei aprì, vide l’enorme mazzo fiorito, si illuminò e gli occhi si un’inumidirono, accorse sua madre, «Ohh Capo, che mazzo meraviglioso, non dovevi, che caro ragazzo».
Lei passò il mazzo alla madre si avvicinò e gli prese le mani. «Ma c’è anche il biglietto, che carino, prendi leggilo».
Questo non era previsto: il biglietto di Interflora con affetto e simpatia Roberto no, non era previsto.
Non si seppe mai chi fosse Roberto, ma cosa successe con il suo biglietto sì.
Non fu una bella reazione, la porta si chiuse in fretta tra lacrime e grida poco educate di madre e figlia riferite a Capo, in particolare alla sua testa e alla sua faccia.

Tempo dopo tentò un nuovo approccio pacificatore ed inviò un amico fidato con il compito di agire da mediatore.
La mediazione funzionò meglio, molto meglio delle più rosee aspettative, infatti i due si sposarono. No, non Capo, ma la ragazza dei fiori ed il suo amico mediatore.

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sabato 11 febbraio 2017

capitolo 2 Autostop e Manitese


Ingrediente  n. 2 MANITESE


Alcune cose potrebbero essere vere e alcuni nomi diversi, ma non saprete quali.


Tra gli audaci del cinema Lux  uno cercava sempre di stimolarci con nuove proposte. Cominciò a parlarci di ManiTese, una associazione benefica che organizzava campi di lavoro. Riuscì a convincerci che sarebbe stata un’esperienza indimenticabile. E lo fu, anche per Mani Tese.

Partimmo capitanati da Loris.
Un campo di lavoro estivo significa raccogliere carta, ferro, vetro e stracci, praticamente fare i robivecchi e con il ricavato finanziare micro progetti di sviluppo.
Partimmo in Ciao Piaggio alla volta del piccolo borgo cinto di mura medievali di Montagnana, 60 chilometri in motorino.




In poco più di un’ora arrivammo. All'accoglienza chiesero le nostre disponibilità.
Cercavano autisti. Mi offrii volontario per guidare. Guidai furgoni di varie misure e tipo, dal cambio tradizionale o sul volante, con o senza servosterzo, con o senza centine.

Fu un’esperienza che mi servì molto quando, l’anno dopo, andai a scuolaguida per prendere la patente.

A Fine orario si comperava nei mercati ortofrutticoli a prezzi stracciati tutto quello che era avanzato. Mangiavamo delle specialità tipo bistecca di melanzana con contorno di melanzana, e melanzana impanata e fritta con contorno di melanzana al funghetto. Non so perché ma le melanzane erano sempre a buon mercato. Protovegani controvoglia.

Nacque così il gruppo Mani Tese nel nostro paese.
Più avanti col tempo ci attrezzammo con un furgone, stinto di un marroncino stomachevole. Così lo dipingemmo di verde fluo e lo battezzammo Pisello.

Detta così, Manitese col Pisello non suona molto bene, lo riconosco, sembra un inserto su youporn.


Il Pisello era un un furgone Peugeot con le porte anteriori scorrevoli. D’estate erano aperte con una catenella, di scarsa sicurezza, che si fissava tra il montante della porta e la serratura. In mezzo ai sedili davanti c’era il motore, coperto da una specie di guscio di tartaruga. Questo assetto aveva il vantaggio di riscaldare l’abitacolo, sempre; inverno ed estate, equamente.
Col furgone organizzavamo raccolte continue di cartoni e stoffe che stipavamo dentro a dei container rosa. Ci diedero una piccola sede dove una volta a settimana si discuteva su come organizzare incontri e dibattiti, parlavamo di commercio equo e solidale, di nonviolenza, terzo mondo, progetti di sviluppo. Di settimana in settimana cercavamo di cambiare il mondo.

L’impegno più importante fu organizzare un campo di lavoro nella nostra città.

Capo venne un solo giorno lavorare alla raccolta di ferro. Lavorò 30 minuti, giusto il tempo per lanciare un’asta appuntita sulla montagna di ferro vecchio. L’asta cadde su una rete a molla di un letto, rimbalzò e si piantò nell'addome di un campista. Capo si scusò molto dal finestrino del furgone dove venne caricato a forza e allontanato dal campo di lavoro.

C’erano anche dei milanesi. Non conoscendo la città e volendo essere utili una sera portarono a cena un gruppo di donne prelevate in zona Campo Marzio; prostitute. Erano convinti di fare del bene, ma tutto nasceva dall'equivoco generato da una frase, «dai che ci divertiamo», detta da uno di loro.
Comunque mangiarono con noi e alla fine ci divertimmo, non come pensavano loro.

In quel campo di lavoro persi il portafoglio con l’incasso di una giornata. Uno dei più anziani mi accompagnò a fare la denuncia tranquillizzandomi. Era sulla quarantina, capelli a caschetto, folti baffi con barba non rasata e camicia in jeans aperta sul petto villoso. Al collo un nastro di cuoio con una medaglia.

«Non preoccuparti dei documenti, di solito svuotano il portafoglio poi lo buttano dentro una cassetta della posta». Due giorni dopo se ne andò, regalandomi la sua medaglia, c’era una scritta partage, condividi. In effetti condivisi abbastanza, visto che non si limitò a rubarmi il portafoglio, ma offrì anche la cena alla mia fidanzata. 

Giorni dopo mi chiamarono dalle poste e scoprii che era anche un veggente.


Quando Mani Tese organizzava la raccolta in paese le leggi stradali svanivano in un limbo.
Passavano trattori con carri che di solito servivano per trasportare il fieno, e furgoni di varie ditte. I carri e i furgoni si caricavano con quintali di carta, ferro e stracci, senza stare lì a ragionare su concetti complicati come portata e tara. Eravamo i precursori della raccolta differenziata.

Dentro, sopra e appesi ai trattori, ai carri o ai furgoni stavano le squadre della raccolta, ragazzi e ragazze tutti attaccati come cozze agli scogli. I mezzi scorrazzavano per il paese non visti da carabinieri o vigili, che casualmente giravano sempre la testa.
Nessuno mai si fece male. Dio esiste.

Punto di riferimento n.1  LORIS

Muoversi per noi era costoso e non avevamo ancora la patente. Partì da Loris l’idea di ricorrere all'autostop. Aveva letto un libro sull'argomento: Sulla strada.
Loris è il gigante buono, il Kerouac di noialtri provinciali.
Ci convinse alla pratica dell’autostop. Quando Loris ti abbracciava la testa finiva sotto la sua ascella, era un abbraccio che veniva da un metro e novantotto.
Era il nostro aquilone senza filo, vedeva orizzonti lontani, libero da legami, ci indicava la via, e noi lo seguivamo. 
Non come docili pecorelle sia ben chiaro, non eravamo dipendenti da nessuno, ma da tutti sì. 
Alcune tra le cose più belle furono sue proposte, alcune delle cose da lui proposte non furono mai fatte e non sapremo mai se avrebbero funzionato, come il faro appeso ad un filo per illuminare una scena del nostro teatro. Non sapremo mai se poteva funzionare e non cedemmo alle sue insistenze. Però inventammo una nuova parola ed una sindrome: la farite di Loris.
Si scrive Loris e si legge pazzia, la pazzia fortunata, quella che riusciva, l’unico che con due biglietti a una lotteria di paese vinse il primo ed il secondo premio.
Le fortune di Loris sembravano inesauribili, i passaggi in autostop erano garantiti, anche se in alcuni casi preoccupanti.





Ad esempio in Côte D’Azur: si fermò un furgone rosso e l’autista, un tipo magro, sulla quarantina, in pantaloncini corti, sandali francescani e t-shirt, scese, aprì il cassone e mi invitò a salire. Prudentemente estrassi la cartina e gli mostrai la direzione che intendevamo prendere.
«Sex, sex» cominciò a ripetere. Si scoprì poi che l’unica cosa che c’era di francescano in lui erano i sandali.
Nella mappa non si riusciva a trovare il posto, ma dopo un pochino di tempo, aiutato dallo sfregarsi l’inguine che questo ormonato autista faceva, capii che “sex” non era un luogo geografico.
«Loris, vieni qui che il tizio ti vuole parlare»
Loris arrivò e salì nel cassone. Chiusi il portellone e li lascia dentro.
Poco dopo il furgone partì rombando, con il tizio che agitava le mani contro quei due italiani poco disponibili. Anche se per noi la lingua francese non esisteva, il linguaggio del corpo era chiaro, in particolare di alcune parti del corpo a cui il linguaggio stesso era rivolto. Prima di partire l’autista del furgone aveva aperto il portellone che Loris picchiava ferocemente da quando aveva compreso che il luogo desiderato dall'autista non era nella mappa ma in lui.

Con Loris era bello passeggiare.

Una vigilia di Natale facemmo il pellegrinaggio di mezzanotte, dal paese alla birreria dell’extraterrestre Gimmy, circa 10 chilometri di strada. Partimmo alle 23, quando i fedeli, tutti belli eleganti ed impellicciati entrarono in chiesa. Nelle chiese di provincia la messa della vigilia è una ghiotta occasione per dimostrare il proprio status sociale di credente. C’è però il sospetto che sia così anche nelle chiese di città. 
A mezzanotte non eravamo ancora arrivati così ci fermammo sotto le stelle di quella silenziosa e fredda notte, in mezzo ad un incrocio, nel buio e nella nebbia.
«Tanto le macchine non passano e ci ricorderemo di questi auguri» Aveva ragione Loris, siamo ancora vivi per ricordarlo.
Arrivammo da Gimmy, a bere le Guinnes alla spina, e poi arrivarono gli altri. Senza sms, senza whatsapp, senza squilli. Non c’era bisogno di campo per vivere, ma di strade.
Gimmy era il nostro posto, del resto non è che potessimo scegliere su infinite proposte.
Lì incontravi l’apicoltore nomade e il legionario millantatore. Nei lunghi tavoli sedevi in compagnia di perfetti sconosciuti e tutti rollavano qualcosa, a volte anche tabacco. Appesi alle pareti c’erano strumenti musicali di vario tipo, chitarre, sax, una batteria in un angolo. Qualcuno a volte staccava uno strumento dal muro a cominciava a suonarlo.

Passò anche il batterista degli Area e si mise alla batteria.

Potevi ordinare le bruschette senza aglio, e Gimmy non te le portava, perché nelle bruschette c’è l’aglio. Ordinavi le patatine fritte e mangiavi le patatine con la buccia fritte nello strutto, si digerivano con calma, non c'era fretta in quel locale. 
Una volta passò un ciclista, chiese un cappuccino. Quando si lamentò perché era troppo caldo Gimmy prese un boccale da birra e ci versò il cappuccino, il ciclista smise di lamentarsi.
Da Gimmy bevevi Guinness, nella sola maniera per bere questa birra, alla spina. Va spinata e servita nei suoi boccali tozzi e tondi, aspettando che la schiuma densa e marrone si formi. 
La Guinness richiede pazienza, intanto digerivi le patate.

Alla cassa il conto era sempre una sorpresa.
«Quanto pago?»
«beh, stasera dammi 10 mila lire»
«ma Gimmy, ho bevuto una sola birretta e piccola»
«hai problemi?»
«no, no» e pagavi, poi la sera dopo bevevi due birrone, mangiavi quattro bruschette e tre patatine, andavi a pagare e lui
«se mi dai una mano a chiudere offro io».
Tutti abbiamo alzato le sedie sopra i tavoli e spazzato il locale. Gimmy era così, prendere o lasciare, lui e il fratello Luca, bravi tosi, ma strani.

Camminare con Loris era sempre un’avventura, non aveva importanza dov'eri, né che ore fossero, che piovesse oppure no; l’imprevisto era sempre in agguato.
Oppure, meglio, l’indole di Loris stimolava il destino a provocare delle reazioni, lanciava il sasso nello stagno per creare i cerchi. Capitava a volte, e di frequente, che si trattasse di liberare la tigre per poi cavalcarla.
Agire così non era privo di conseguenze.
Passeggiando con lui succedevano due cose: mentre parlavi e arrivava una macchina dietro di te, capitava che Loris sfoderava il suo pollice e allora andavi a caso, dove andava l’autista.

Una volta a bordo continuavi, senza preoccupazioni, i ragionamenti e la chiacchierata di quando stavi a terra. L’autista poteva andare ovunque, la meta non era l’arrivo ma il viaggio.

Un sabato d’estate ci stavamo annoiando.
«Chi arriva per ultimo sotto la torre di Pisa paga da bere» disse qualcuno, e si partì a coppie, io con Ivano. Applicammo il metodo del cartello con scritta. Proposi di scrivere Pisa, mi pareva sensato, ma alla fine vinse l’idea di Ivano: un punto esclamativo gigante. Non so perché, ma ci caricarono.

All'ultimo camionista dell’ultimo passaggio confidammo che era una gara e per vincerla bisognava dimostrare l’orario di arrivo, così si fermò, apri una scatola sotto lo sterzo e ci regalò un disco in carta con un grafico circolare dove si poteva leggere la velocità e le pause.
«Con questo potete provare l’ora di arrivo» E fu così.




Si partiva affidandoci al caso e poi si tornava. Vivi. Tra noi ci sono piante che hanno l’asfalto tra le radici.

Oltre alla faccenda dell’autostop, con Loris capitava di incrociare sullo stesso marciapiede suore o donne anziane e timorose di Dio. E ciò non era bello, era la tigre che ti prende alle spalle.
Mentre camminavi e le vedevi, cercavi di portare Loris sul lato opposto della strada. Evitare a lui, a te e a loro di incrociarsi. Loris parlava serenamente di qualsiasi cosa. Del tempo, di un libro, di una ragazza, parlava normalmente, era sereno. Fino a quando loro, le donnine, arrivavano a portata di udito. Allora il discorso cambiava, si inventava azioni erotiche fatte con ragazze inesistenti, prodezze sessuali di fronte le quali Rocco Siffredi sarebbe impallidito. Con dovizia di particolari e riferimenti corporali, minuziosi e dettagliati, dimostrava una conoscenza anatomica da laureato. Aggiungeva poi termini oltremodo scurrili. Le gentili e clericali donnette lo ascoltavano loro malgrado, ed assumevano espressioni e tonalità di colore cutaneo inverosimili.
Alcune facevano il segno della croce, non rivolto a loro ma a noi.
Altre, conoscendoci, cambiavano strada nel vederci. Nessuna mai ci sorrise, anche se Loris insisteva nel dire che si capiva che scherzava. Ancora oggi abbiamo dei dubbi sul fatto che capissero lo scherzo, e alcune anziane del paese ci guardano con sospetto facendoci il segno della croce.

Loris apprezzava cambiare punto di vista sul mondo, spesso ci invitava a casa sua, dove aveva una grande mansarda accessibile con una scala esterna. Era in realtà un appartamento, con ampie finestre sul tetto. Da queste finestre ci invitava ad uscire ed a sederci sui coppi. Così, sdraiati sul tetto, si guardavano le stelle di notte, oppure, di giorno, il passare delle macchine, dei ciclisti e dei pedoni lungo via Roma. Si parlava immersi nella vita del paese e nello stesso tempo al di fuori ed al di sopra, quasi il paese non ci appartenesse. In quella casa mansardata sono nate storie, feste, discussioni, commedie. Ascoltavamo musica, gli album di Bennato, Non farti cadere la bracciaSono solo canzonette, il preferito Burattino senza fili .

E poi Clapton a manetta e Cocaine come se piovesse.

Quella soffitta era uno spazio autogestito ed anarchico, che Loris, ed i suoi genitori, accettarono di mettere a disposizione del branco selvaggio che eravamo.




Floriane, la ragazza di Tolone, di lei e Loris un pochino bisogna parlarne.

Per scrupolo non parlerò dei fatti accaduti nel del cimitero, ma solo che Loris è molto ostinato e determinato nel raggiungere i suoi obiettivi.
Floriane non era un suo obiettivo, ma conseguenza di un suo obiettivo. C’era una tappa che voleva superare prima della maggiore età, lo fece con Floriane, una simpatica, forse debole, ragazza che abitava a Tolone.
Era in vacanza in Italia, nel nostro paese e per qualche motivo conobbe Loris. Tutto andò nel migliore dei modi tra loro senza ferire nessuno dei due e permettendo ad entrambi di ottenere quanto desiderato, senza conseguenze, almeno per il momento.
Un anno dopo Floriane tornò, con un bambino. Fu così che durante la permanenza di Floriane, circa 15 giorni Loris fu introvabile, lo vedevamo sopra il tetto di casa sua a tutte le ore del giorno, guardava la strada, le macchine passare, le bici, i pedoni, e Floriane con il bambino. Tutti noi sapevamo che si trattava del suo nipotino. Nessuno di noi però lo disse a Loris. A volte le tigri si cavalcano dal tetto di casa.
Tutto girava nel verso giusto, poi arrivò la notizia dell’incendio al cinema Statuto. Potevamo scegliere se informarci nei telegiornali del primo o del secondo, e basta. Il Biscione di Canale 5 arrivò poco dopo. Nei TG si parlava di morti assurde e delle porte di sicurezza chiuse. Era chiaro anche a noi che bisognava cambiare le regole, era giusto chiudere i luoghi pericolosi. 
Che ci fosse anche il Lux tra questi luoghi però nessuno lo pensava.
Era il 1983, quell'anno al cinema del paese in cartellone c’era The Big Chill di Lawrence Kasdan, in effetti era l’anno del grande freddo.


Ci trovavamo da Ivano per scrivere, c’era tanta neve e non si muoveva nessuno.

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