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sabato 27 maggio 2017

e questo è tutto quello che ho da dire



         E questo è tutto quello che ho da dire su questa storia.


Su idea di Ciano, la nostra colonna sonora, decidemmo di organizzare una serata di beneficenza e riproporci vent'anni dopo il nostro esordio.




Così a dicembre del 2004, con più panza che capelli, tornammo a esibirci. Iniziò con la proiezione delle prime immagini del nostro esordio: Freeze Frame vibrò ancora dentro al teatro Lux, sullo schermo comparve un atletico Carletto di vent'anni più giovane, poi il telo si alzò, e dietro, con gli stessi vestiti di allora, Carletto salutò il pubblico.

Aveva conservato i vestiti, e in qualche modo riusciva ancora a indossarli.

Il pubblico ci accolse ancora una volta con un applauso fragoroso, rise di gusto alle vecchie gag e anche a un paio di nuovi sketch che avevamo inventato. Forse tra il pubblico c’era anche quella mamma che aveva rotto le acque durante lo spettacolo nel piazzale del consorzio, con il figlio, o la figlia, e magari i nipoti, a fianco.

Dal nostro esordio erano passati vent'anni, e un poco si vedeva.

Ce ne accorgemmo noi stessi durante le prove, in particolare nella gag dei paracadutisti. Si trattava di imitare sul palco le improbabili acrobazie aeree di un gruppo di paracadutisti. Alla fine i paracadute, che erano degli ombrelli, si aprivano. Tranne l’ultimo, che una volta aperto si rivelava un ombrello senza tela, un misero scheletro di ferretti che condannava così il paracadutista a schiantarsi. La scena era carina, facile e semplice, a non considerare il fatto di dover saltellare su una gamba per più di tre minuti. Fu così che, per scegliere gli attori della scena, si adottò un metodo nuovo: Ciano mise la musica e tutti iniziarono a saltellare; quelli che rimasero in piedi recitarono la scena.

Non avevamo montato nulla sul palco quella sera, nessuna scenografia falsamente ignifuga. Eravamo noi, il pubblico e il Lux, non ci serviva altro per essere appagati. Lo spettacolo finì, salutammo il pubblico e uscimmo dal teatro. Poi si spensero le luci.

Siamo piante di provincia, e per chi nasce ai margini è tutto più complicato. Andare a scuola in città significava svegliarsi molto presto. Viaggiavamo nel torpedone della S.I.A.M.I.C. Siamo Insulsi A Montare In Corriera, diceva qualcuno. Il torpedone era lungo, una doppia corriera con uno snodo in mezzo per consentire le curve: se ti trovavi nello snodo e pioveva dovevi tenere l’ombrello aperto perché la gomma a soffietto di giunzione tra i due pezzi della corriera era usurata e ci pioveva dentro.Tornavi a casa alle due e mezza del pomeriggio, affamato. Spesso mangiavi la pasta cotta da mezzogiorno. Vedere un film in città non era possibile, almeno fino a che qualcuno con patente, macchina e genitore disponibile a prestarla, ti ci portava. Qualche sera ti ritrovavi alla Casa del giovane a giocare a carte, a flipper o agli antenati dei videogiochi: Space Invaders, Pac-Man, Snake, Pong e altri precursori dell’elettronica. Per ogni gioco un macchinario che emetteva suoni elettronici alla Star Trek. Noi giocavamo a biliardo, un gioco di squadra, adatto alle chiacchiere e alla birra. Ci passavamo le domeniche mattina o i sabati pomeriggio, a volte qualche sera. Per rimanere in contatto scrivevi lettere su carta. Tutto richiedeva più tempo.

Gestire un cinema per noi fu la salvezza. Viaggiare in autostop indicava un disperato bisogno di superare i confini e varcare le frontiere; recitare un mezzo attraverso il quale aprirsi al mondo. I ragazzi di provincia o si adagiavano rimanendo ai margini oppure reagivano in qualche modo. Noi scoprimmo il teatro.

Non fu semplice arrivare ai teatri di città, recitare al S. Marco, all’Astra e in molti altri luoghi. Ci riuscimmo perché piacevamo alla gente. Vincere concorsi a Digione e Parigi, essere invitati come attori a Reims, a Mulhouse in Francia e a Casablanca in Marocco: fu un risultato incredibile per dei ragazzi di provincia senza sostegni e senza denaro da nessuno che non fosse il nostro pubblico.

Abbiamo girato l’Europa in autostop perché avevamo fame di emozioni e sete di libertà, sogni e desideri comuni. Ci siamo cercati e trovati formando un gruppo; i gruppi si formano in base agli interessi. Tutti noi tendiamo a raccoglierci attorno al fuoco comune delle idee, del divertimento e dei pensieri. Il fuoco attorno al quale ci riunivamo noi era la fantasia, il tentativo di fare qualcosa di memorabile, di costruire e di vivere una storia, sfidare l'impossibile solo perché potevamo farlo. Avevamo l’esigenza di stare tra noi e non riuscivamo a riconoscerci nei modi dei nostri coetanei, almeno quanto loro non si riconoscevano nei nostri. Stavamo nel mezzo, nella nostra isola che non c’era, costruendola. Tra i Funghi, con i capelli a caschetto, che andavano in discoteca a ballare con la musica afro e a cercare ragazze e canne, o i Paninari, sportivi elegantini con le loro Timberland, i loro Moncler e qualsiasi altro capo firmato, che passeggiavano per il centro mostrando la loro bellezza e dedicandosi al consumo nei primi Fast food che cominciavano ad aprire in giro.

Questo non ci appagava, noi eravamo altrove.

E mentre i nostri coetanei ballavano, o si rimpinzavano al Burghy, noi ci trovavamo a discutere di Chaplin, a parlare di Don Milani, a guardarci i film di Billy Wilder. Non c’era un confronto con gli altri, non c’erano buoni o cattivi, giusto o sbagliato. La scelta non avvenne per riflessione o per vocazione, probabilmente fu il caso a farci incontrare, lo stesso casuale meccanismo che ci fece inventare la fantastica macchina da presa. Forse perché c’era una via che andava percorsa e toccava a noi farlo. Non riuscivamo a contenere la fantasia che ci bruciava dentro: il nostro fuoco era la creatività. Facevamo l’autostop per vivere all'avventura, ma vestiti in modo dignitoso, puliti, da bravi ragazzi. Abbiamo dato un calcio al mondo. Il mondo di certo non se n’è accorto, ma noi sì. Era l'avventura che ci interessava, e delle nostre storie ne parlavamo tra noi, senza vanto, con condivisione, ma per restare nel gruppo cercavamo un ruolo, una maschera che spesso si incollava al volto, e così, spesso, i nostri rapporti diventavano teatrali. Finivamo per agire come se, recitando sempre un ruolo anche quando scendevamo dal palco, quasi che l'intero mondo fosse la nostra scena, senza distinzione tra commedia e realtà. Stavamo vivendo un periodo denso e pieno, senza accorgercene e senza pensare che questa pienezza potesse venire a mancare. L'irresponsabile coraggio di affidarsi al caso ci apparteneva. Per noi era inimmaginabile che, prima o poi, il mondo reale che camminava al nostro fianco, alleandosi con il tempo, riuscisse a smussare la nostra vitalità fino ad ingabbiarci.

Nei fossi usano delle trappole a rete, le nasse, dove il pesce entra e non trova più la via d’uscita. Ecco cosa ci stava accadendo: nuotavamo immersi nel nostro mondo mentre il tempo posava le nasse, dentro le quali ci saremmo incagliati. Non ci fermammo mai a cogliere quegli attimi, per preservarne il calore e l'energia ai quali attingere un domani, perché il domani era oltre il nostro orizzonte. E tutto ci scivolava accanto, mentre eravamo tutti troppo presi da una vitalità frenetica che ci sembrava inesauribile.

Il Pánta rêi della vita ci fece approdare alla nostra Samarcanda, dove il destino di ognuno ci attendeva. Ci scoprimmo adulti e indossammo i ruoli che la società ci offrì. Ruoli che avevamo inavvertitamente contribuito a creare. Il branco si disgregò in individui sociali, diventammo imprenditore, operaio, magistrato, tecnico, infermiere, agricoltore, vigile, insegnante, carabiniere, pubblicitario. Sembrava quasi che i personaggi che ci divertivamo a inventare fossero divenuti reali e si vendicassero di noi costringendoci e vestire quegli stessi ruoli, purtroppo non più per gioco o finzione. La vita portò i frutti del tempo e dosò gioie e dolori, nascite e morti. Provocò ferite e guarigioni. Rimase però un rivolo sotterraneo al quale il branco attinge, e che ogni tanto zampilla ricordi ed emozioni: in quelle occasioni riscopriamo il legame profondo, celato ma non rimosso, che ancora unisce i ragazzi Alluxinati, ricordandoci che ciò che siamo stati fa parte di quello che siamo.

Ora i nostri luoghi non ci sono più. Al posto del consorzio c’è un parcheggio, la casa di Loris è stata demolita per costruire un grande palazzo e un all you can eat. Buffo pensare che in quel palazzo a lungo ci siamo nutriti anche noi, ma di desideri e sogni. Sul tetto ci sale solo qualche antennista, o l’omino di Sky per vendere illusioni da vivere comodamente sdraiati sul divano di casa. Gimmy, con le sue patate fritte nello strutto, non c’è più e al suo posto c’è un altro locale, il Neverland, dove se vuoi puoi ordinare una bruschetta senza aglio, e te la portano. Non so che fine abbiano fatto l’apicoltore nomade o il legionario posticcio, saranno altrove, con una Guinness in mano. Mi piace pensare che assieme a loro, in quell'isola che non c’è, vivano i nostri personaggi, e che per raggiungerli basti fermarsi alla stazione di Montecalvo, comperare un biglietto da Tamarindo Lopez e farsi guidare da Leopoldo Scortegagna. In quell’altrove potrai incontrare spie con i coltelli piantati nelle schiene, inventori pazzi con la loro Wonderfull Machine, apprendisti angeli in cerca di ali di prima categoria, innocui ubriaconi, eremiti maldestri, camerieri muti e tutti i fantastici personaggi, tutti con il naso in su. Tutti sono con gli occhi al cielo a guardare le evoluzioni dei paracadutisti con l’ombrella, tutti nati al Lux, tutti Alluxinati.






Ogni riferimento a luoghi e persone NON È puramente casuale, altrimenti come avrei mai potuto scrivere tutto questo?


Tra poco questi post spariranno, o diventeranno qualcos'altro. Solo un ricordo, o un libro,  o uno spettacolo vedremo.


Ringrazio chi mi ha supportato e sopportato in questo percorso in particolare Lucia che ha tentato invano di spiegarmi le D eufoniche.


e questo è tutto quello che ho da dire su questa faccenda (cit. Forrest Gump)



sabato 20 maggio 2017

capitolo 16 Il nuovo cinema Lux disponibile

                                                          Il Nuovo Cinema Lux


1999, l’odissea nello spazio del teatro Lux era finita: a maggio di quell'anno il cinema teatro Lux venne inaugurato. A maggio di qualche anno prima, mentre il Friuli crollava, io ci camminavo dentro, da solo e al buio, alla ricerca di un giubbino per la mia Ginevra, mentre il Friuli crollava.

Per la nuova inaugurazione scelsero Matrix, senza sapere che la slow motion l’avevamo inventata noi, molto tempo prima, grazie alla fantastica cinepresa di Ivano.



Dovevo essere presente: caricai in fretta mio figlio, che allora aveva sei mesi, nella Fiat Uno, l’auto che aveva sostituito la Dyane 6 demolita da poco, e partii in direzione del Teatro Lux.Nel 1999 Davide Van Des Sfroos pubblicò l’album Brèva e Tivàn.Io non lo conoscevo ancora, ed era un peccato perché La Balada del Genesio sarebbe stata la colonna sonora perfetta per quel giorno, soprattutto la frase cul destèn de dree di spàll per mulàmm ‘na bastonàda.Non fu propriamente un bastone ad arrivarmi alle spalle e a cambiare la mia destinazione per quella sera, ma un’auto sportiva.

Così, al posto di arrivare al Lux, mi ritrovai all'ospedale, l’auto distrutta, mio figlio, incolume, in braccio a degli sconosciuti che lo avevano estratto dalla macchina, un ciupa ciupa per calmarlo. L’ambulanza mi portava al pronto soccorso assieme al ragazzo americano che mi aveva centrato in pieno.Era la prima volta che mio figlio vedeva un uomo nero. Avevamo sempre evitato di spaventarlo dicendogli «smettila che arriva l’uomo nero», non volevamo creargli pregiudizi.

Ma l’uomo nero invece arrivò. Di corsa, sfrecciando alle nostre spalle, in una folle gara con i suoi amici, lungo la statale. Tentò di superarmi a un incrocio mentre io giravo a sinistra verso il Lux, e mi centrò in pieno spezzando la macchina, il sedile rotto, i finestrini in frantumi.

Non riuscivo a capire cosa fosse successo: mi trovavo sdraiato dentro la macchina, non vedevo più la strada e non sapevo più dov'ero.

Tirai il freno a mano, spensi il motore. Non potevo alzarmi, la portiera era incastrata. Girandomi vidi mio figlio sul seggiolino, fissato con le cinghie, ribaltato sul sedile. Aveva da poco compiuto tre anni, sapeva parlare ma preferiva tacere. Quella volta disse: «oh-oh, sono caduto!», con molto aplomb. Non era spaventato, solo inclinato.

Ma poi arrivò l’uomo nero. La sua macchina aveva spazzato via la mia, camminato sopra le aiuole spartitraffico dell’incrocio, divelto i segnali stradali e alla fine si era schiantata contro un ponte in cemento. Gli airbag, se funzionano, ti salvano la vita, e così fu per l’uomo nero; ma i vetri gli avevano tagliato la faccia.

Lui, a differenza di me, riuscì a muoversi e a uscire dall'auto, e corse verso di me. Mise la testa dentro al finestrino e mio figlio lo vide: la faccia per metà rossa e per metà nera, sembrava Bigio vestito da giullare, ma il rosso, questa volta, non era tinta, era sangue.
Fu così che l’uomo nero e rosso spaventò mio figlio, che cominciò a strillare: ora era inclinato e spaventato.

Qualcuno chiamò i vigili e in poco tempo, a sirene spiegate, arrivarono Carabinieri Polizia Stradale ambulanza, e pure la Militar Police americana.
Mi caricarono di corsa nel lettino dell’ambulanza, caricarono anche il ragazzo sanguinante, e ci portarono via, inseguiti da Carabinieri e Militar Police in un luminoso abbraccio blu: un figurone.

La faccenda si risolse in modo meno grave del previsto, qualche taglietto alle braccia, una bella botta alla gamba sinistra, e naturalmente il colpo di frusta.
Del ragazzo americano non si seppe più niente, anche lui vittima delle leggende metropolitane che accusano la famigerata Militar Police di far sparire dalla nazione chiunque commetta un danno ai residenti.
Mio figlio invece fu ritrovato in braccio a una parente, che oramai pensava di adottarlo, visto che io ero stato portato via senza che lei potesse dirmi niente.

E il Lux venne inaugurato senza di me, ma nessuno se ne accorse.




Gli organizzatori avevano deciso di iniziare con un film in prima visione, in modo da stupire la gente con il fantastico e, a detta di alcuni, assordante Dolby Surround, del quale però non ho mai colto molto, essendo io sordo a un orecchio.



La sera dopo, però, c’era teatro con alcuni gruppi parrocchiali, e in chiusura gli Homo Ridens. In effetti era la chiusura, ma ancora non lo sapevamo. Al nostro turno ci esibimmo in una serie di gag, molte delle quali ormai note, ma, nonostante questo, apprezzate. Non rispettammo il tempo messo a disposizione, ma nessuno si lamentò: il pubblico gradiva.
Recitai con il collare, unico segno dell’incidente della sera precedente.



Il nuovo Lux però non era più casa nostra, del gruppo di gestione precedente si erano perse le tracce. La struttura era rimasta la stessa, ma con alcune modifiche: il tetto venne ricostruito e i colombi sfrattati, con buona pace del sacrestano, che a maggio andava a prendersi i torresani per condire le lasagne; tutti i serramenti vennero ripassati, diventando così a prova di pipistrelli.




Il numero di posti era stato ridotto a 374 poltroncine in velluto rosso, certamente ignifughe; le due ali della galleria non erano più accessibili al pubblico, una catenella impediva l’accesso, che ora era riservato ai soli tecnici. Il palcoscenico era enorme, dodici metri per otto di profondità. Sul lato sinistro una porta consentiva di accedere ai camerini e ai bagni, addirittura con doccia. Sparito il telo fisso su cui proiettare, sostituito da un telo avvolgibile a scomparsa. Sparite le macchine da presa a carboni, e purtroppo nessuno pensò di tenerne una a futura memoria. Erano vecchie, molto vecchie, ma forse proprio per questo meritavano un poco di rispetto. Ora si usavano macchine a lampada e totalmente automatiche.Non arrivavano più le pellicole divise in otto o più pizze, ma due valigioni con dentro già avvolti i due tempi del film.



Eravamo contenti di avere inaugurato il nuovo Lux, ma consapevoli che, proprio perché nuovo, sarebbe stato più complicato poterlo usare con la libertà di un tempo.

Mentre il teatro si preparava a riaprire i battenti, noi ci trovavamo a casa di Loris per decidere cosa fare. Pensammo ad altri sketch, ma Capo non era interessato, si disse disponibile solo per le repliche.
«Quali?» disse Fayo: non avendo nuove proposte, faticavamo ad essere chiamati in giro.
Giravamo di più nei locali, dove le nostre scenette erano ancora gradite, e spesso venivamo pagati con birra e cibo.
I teatri e i festival non ci appartenevano più.
Il motore della fantasia stava rallentando il suo ritmo, quasi avessimo bruciato troppo in fretta l’energia di cui potevamo disporre.
«La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo e tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti». Lo aveva detto anche il dottor Tyrell, l’inventore dei replicanti in Blade Runner. La nostra candela ormai era consumata.

Ma non potevamo sparire nel nulla, c’erano degli obblighi legali, eravamo una associazione con statuto e codice fiscale, insomma, dovevamo espletare delle pratiche prima di scomparire.

Alla fine organizzammo una cena per sciogliere il gruppo. Non eravamo tristi, solo consapevoli. E il folletto magico che si agitava dentro ognuno di noi si era addormentato. Eravamo certi della sua esistenza, ma non sapevamo come fare per risvegliarlo.
Quella sera ci fu un brindisi e un abbraccio tra noi, che eravamo consapevoli di avere vissuto un’avventura unica e costruito un legame profondo tra di noi. Se soltanto quel maledetto folletto non si fosse addormentato, chissà cosa avremmo potuto costruire.

Gli Homo Ridens si esibirono per la prima volta nel 1984 dentro al teatro Lux, che poi venne chiuso.

Nel 1999 il nuovo teatro Lux venne inaugurato e gli Homo Ridens sciolsero il loro gruppo.

Ma tornarono un’ultima volta.


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sabato 13 maggio 2017

capitolo 15 Sulla luna c'è un castello


Sulla luna c'è un castello.

Pur sapendo che i sogni sono finzione e che, come dice Vecchioni, sulla luna c'è un castello che finché lo sogni è bello, poi no, non rinunciammo al tentativo di vivere come desideravamo. Dopo l'esperienza parigina e i vari festival, tentammo di imboccare la via del successo. Così alcuni di noi, dopo Parigi e prima di Ciapa L'ondaintrapresero un viaggio alla ricerca di una possibilità, alla caccia di un sogno. 




Loris, Gnagno, Kate, Fayo, Lucio e Schizzo partirono sul Ford bianco nove posti procurato da Gnagno. No, adesso che ci penso, Kate non partì; disegnò la maglietta per tutti, anche per sé, ma Lucio, il suo Lucio, la convinse, con moderata insistenza, a rimanere a casa. Lei allora non partì, rimase a casa contenta e, senza rancore, bruciò la maglietta di Lucio.

L'entusiasmo di Parigi aveva generato speranze che non si erano mai sopite. Così, un poco alla volta, il progetto di sperimentare un’esistenza girovaga per l'Europa e vivere con il ricavato del proprio talento prese vita.

Fu preparata una scaletta con scene mute della durata complessiva di circa 30 minuti, la chiusura non poteva che essere Alluxinati.

Loris inventò una scenografia portatile e con Fayo costruì dei telai in sei pezzi, assemblabili in moduli da un metro per due, i quali venivano ricoperti di una tela nera e si incastravano tra loro con le stesse cerniere delle porte di casa, posandoli a zig- zag creavano un fondale.
Schizzo non recitava, quindi fece il tecnico audio, con un piccolo stereo portatile.

Lucio e Fayo si occupavano della logistica e della cambusa. Quest’ultima comprendeva circa 25 chilogrammi di pasta, alcuni litri di salsa di pomodoro e del buon vino nostrano, nel caso Kate volesse fare qualche pastasciutta.

No, Kate no, Kate rimase a casa, a bruciare la maglietta di Lucio, si racconta.

Prima tappa Monaco di Baviera, Marienplatz, e nessuna esperienza come busker, ma chissenefrega.
«Se si aspetta sempre di avere l'esperienza va a finire che ci estinguiamo» disse Fayo. «Certe cose si fanno perché c’è una pulsione interiore che ci spinge, opporsi è doloroso» disse Kate. 

No, Kate era a casa, questo probabilmente lo disse Schizzo, che indossava la bella maglietta disegnata da Kate che a volte prestava a Lucio.

A Monaco recitarono e non andò male. Come prima prova raccolsero a cappello 60 marchi. Giusti per una birra di festeggiamento e di buon auspicio.




Ripartirono: direzione Berlino, con alcune tappe lungo il percorso per concedersi qualche giretto turistico.

Eccoli allora a Berlino, Parco Tiengarten, alle spalle della porta di Brandeburgo. Il muro non c'era più, allora i muri si abbattevano, non si costruivano. 




Il pubblico era numeroso, attento e caloroso; tra la gente una simpatica bambina correva scalza, era facile riconoscerla, aveva i capelli a caschetto scuri e un vestitino giallo con delle piccole macchie. Correva in mezzo al pubblico con un sacchettino di tela, felice da impazzire. Al termine dello spettacolo però, nel cappello, trovano poca roba, otto miseri marchi. Un fallimento, una delusione. Eppure il pubblico era contento, rideva e si divertiva. Una voce stridula e sorridente chiama i ragazzi per ringraziarli. Almeno la piccola bambina si ricorderà degli Alluxinati per un pezzo.

Anche loro non l'hanno più dimenticata. Il piccolo mostriciattolo, con candore e innocenza, ma forse anche con subdola e sottile presa per i fondelli, mostrò loro il sacchettino di tela, gonfio di soldi.

Sbigottiti la guardarono prendere cinque marchi, metterli nel cappello e scappare.
Schizzo non aveva visto la borsetta gonfia del loro denaro e ringraziò la bambina. Fu così che alcuni degli spettatori rimasti applaudirono alla scenetta fuoriprogramma di Schizzo urlante che scappava inseguita dai maschi, vestiti questa volta.

Fatta la Germania, la compagnia si diresse verso Copenaghen. Lungo il tragitto lo spettacolo e il metodo di raccolta vennero perfezionati. Gnagno, alla guida, ogni tanto sacramentava al ricordo della simpatica bambina. A Copenaghen venne fatto quello che sarebbe stato l'ultimo spettacolo del viaggio. Nel cappello trovarono poco più di settanta corone danesi: Schizzo gridò di gioia. Nessuno aveva il coraggio di informarla sul cambio corrente e la lasciarono sorridere felice.

Visto che l’arte non rendeva quanto speravano, reagirono alla delusione viaggiando fino a Oslo, in fondo erano solo 600 chilometri. Arrivati a destinazione, nel campeggio che sovrasta la baia dove si trova la città, incontrarono casualmente cinque compaesani. Ci fu una sana e rincuorante serata di baldoria. Schizzo volle offrire una birra ai maschi: scoprì solo allora che un boccale di birra a Oslo costava 150 corone danesi; smise di sorridere e il sogno scivolò dalle mani come la cordicella di un palloncino a elio.

Il giorno dopo, nell'angolo della baia dove palleggiavano tra loro, arrivò un gruppo misto di polacchi.Loris estrasse dal furgone una rete da pallavolo, una delle svariate cose portate perché non si sa mai. Iniziò una sfida all'ultimo set. Erano le 18 e Lucio propose di giocare fino al tramonto per poi andare a scoprire le meraviglie notturne della città, ma non aveva fatto conto che alle 23 il sole brilla ancora, per niente assonnato, nel cielo limpido di Oslo. Altro che vita notturna: erano distrutti e avevano pure perso tutti i set.
Finalmente il giorno cedette alla notte.

Dopo una lunga dormita senza sogni, ripartirono verso Amburgo.
Nel furgone discussero a lungo riguardo l'uso strumentale del corpo femminile, per giungere alla conclusione che era per rivalutare il ruolo delle donne e non per mero turismo sessuale che avevano deciso di visitare il quartiere a luci rosse di St. Pauli. Decisero di entrare nella piccola stradina di Herbertstrasse, valicando i muraglioni di ferro su cui troneggiavano i manifesti pubblicitari di una marca di sigarette con disegnati degli uomini che tentavano di scavalcare il muro. 

Al di là dei muraglioni le grida delle prostitute, come le sirene di Ulisse, invitavano a entrare. "Go Away!" gridavano, così entrarono tutti, compreso Schizzo. La accolsero a secchiate d'acqua. Col tipico candore del turista italiano che finge di non sapere, pensando sempre che una finta ignoranza possa garantire l'accesso a qualsiasi luogo, Schizzo era entrata nel quartiere ignorando i vistosi cartelli che proibivano l'accesso ai minori di 18 anni e alle donne.

Fu così che i bollenti spiriti del gruppo si sopirono, freddati da una doccia imprevista.

Abbandonate le lascive sirene di Amburgo, arrivarono ad Amsterdam; questa volta era il cielo stesso a versare secchiate d'acqua.
Cercarono un campeggio, ma l'unico con posti disponibili era pieno di fricchettoni.
A causa della pioggia era impossibile montare la tenda, così si rifugiarono sotto la tettoia del piccolo bar del campeggio: neanche in Val Padana si vedeva mai una nebbia così densa.
Fu così che scoprirono la Giamaica e tutti i suoi profumi, le sventure andarono letteralmente in fumo. Tra i tavoli girava un tizio con i capelli biondi e ondulati fino alle spalle e barbetta incolta. Era una serata fredda e piovosa, per questo il tizio indossava maglione e giacca a vento; si presentò, poi si alzò traballante e uscì sotto la pioggia in mezzo al fango, in calzoncini corti e infradito, probabilmente aveva un impianto di riscaldamento a zone.
Ci fu un momento in cui il cielo si rasserenò, per fortuna coincise con un momento di lucidità del gruppo, giusto in tempo per montare la tenda.




La notte passò veloce, si addormentarono cullati dal tamburellare ritmico della pioggia.
La mattina c'era il sereno, ma scorrevano rivoli d'acqua in tutto il campeggio e la via principale sembrava un affluente dell'Amstel.
Passò davanti a loro una tenda canadese, sembrava una barchetta che galleggiava sopra il rivolo d'acqua della via principale e si lasciava trasportare dalla corrente, sbatacchiando addosso alle persone che, divertite, la sospingevano verso valle. Dopo pochi minuti arrivò il tizio con la barbetta e gli infradito della sera prima, che girava per il campeggio chiedendo a tutti se avessero visto una tenda passare.




In Belgio si fermarono a Gand e a Bruges, dove Loris voleva mangiare l'impepata di cozze che trionfava nei vari locali, ma Gnagno temeva effetti collaterali non graditi, e così dirottò sui pancakes, comunque molto apprezzati.
Poi Calais, a nord della Francia, e poi l’attraversamento della Manica, per andare a prendere il fratello di Fayo in ferie a Canterbury.
Il fratello di Fayo era una persona osservante e praticante e coinvolse tutti nella sua crisi pastorale. Decisero quindi di fare tappa all'abbazia trappista di Chimay, dove dal 1850 alcuni bravissimi monaci producono un'ottima birra che agevola molto il dialogo con il divino.


La gustarono in quantità, assieme al loro pane e formaggio. Alla frontiera con la Francia arrivarono allegri e sorridenti, molto allegri e molto sorridenti, tanto che i poliziotti li fermarono, credendo che l'euforia non fosse causata dai frati trappisti, ma dai coltivatori giamaicani. Perquisirono il furgone, interrogarono tutti, controllarono i bagagli e si insospettirono per alcuni strani oggetti che venivano usati nelle scenografie. Alla fine, non avendo trovato quello che cercavano, li fecero partire, ricordando a Gnagno, con una virile manata amichevole, che l'autista non deve bere.



Tornarono a casa dopo tre settimane di tournée, avevano visitato dieci paesi e venti città, recitato tre volte e incassato soldi sufficienti solo per una birra a testa.

Del castello sulla luna nessuno ne parlò più, ma il viaggio, quello sì, fu un successo.






domenica 7 maggio 2017

capitolo 14 Ciapa L'onda

capitolo 14  CIAPA L’ONDA

Doveva essere il nostro spettacolo più bello, fu l’ultimo.

C’è poco da fare, certi film di Hollywood ti entrano dentro e ti rimangono appiccicati, succede anche con certi attori.

Mork e Mindy, con il loro nano nano, lo strano saluto di Mork dalle improbabili origini vulcaniane, erano stati il trampolino da cui si era lanciato Robin Williams, per rimanere poi appeso alla sua cintura. L’attimo fuggente alla fine arrivò, purtroppo diverso da come lo si immaginava. Nessuno avrebbe pensato che Puk, il folletto del Sogno di una notte di mezza estate, anni dopo, sarebbe tornato per trascinare via lo stesso Robin.

Ma Robin, il Capitano mio capitano, non avrebbe certo immaginato che il suo grido di inizio delle trasmissioni radio per le truppe americane in Good Morning, Vietnam, anni dopo, sarebbe diventato il grido di inizio di Ciapa L’Onda.




Ma noi non eravamo in Vietnam.

«Good Morning Gaianigo!!!» disse il nostro Capo nei panni di Ernesto Bosegato, speaker di Radio Aladino. Iniziava così Ciapa L’onda.

Che colpa avessero Gaianigo e i suoi abitanti – gaianighesi? – per essere usati come apertura di un nostro spettacolo, non lo sappiamo, ma così iniziava: con Capo che, alla radio, faceva il cronista d’assalto.

Va detto che alcuni paesi hanno nomi curiosi o simpatici, e Gaianigo di sicuro è tra questi.
Una volta venne a trovarmi un mio amico, arrivò ridendo, aveva attraversato Grantorto, e poi Grantortino.

Mi chiese se sapevo che torto avessero subito, ma era incuriosito anche per il tortino.
Altri due paesi dai nomi innocui sono San Pietro in Gù e Gazzo. Per spaventare la gente raccontavamo che volessero unificarli sotto un unico Comune, Gazzo in Gù. 
Ma per fortuna fino a oggi non è successo.

Ciapa L’onda, una sorpresa di matrimonio con un giornalista radiofonico d’assalto che vuole fare il servizio in diretta nella sua nuova rubrica, Sposi on the air, e uno sposo che si trova abbandonato il giorno delle sue nozze.

Questi erano i cardini attorno ai quali ruotava la scena. Avevamo pensato in grande: scenografia girevole e modulare appoggiata su carrelli in ferro che ruotavano, porte che si aprivano a scomparsa, balconcini con tende e passaggi segreti.

Ora parte di quella scenografia si trova sdraiata dentro una stalla senza più mucche, entrambe, stalla e scenografia, desolate a pensare quello che sono state e non saranno più, entrambe ad attendere il tempo delle ruspe e quello del fuoco.

Ciapa L’onda era, fin dal principio, uno spettacolo diverso dai precedenti.
Infatti prima creammo il testo, e anche questo, forse, fu un errore.


Mettere in gabbia la nostra fantasia, tentare di portare alla razionalità e alla progettazione un gruppo così sregolato, sembrava un passaggio necessario per maturare e crescere come attori. Volevamo avvicinarci al mondo del teatro che avevamo conosciuto e frequentato ma che ancora ci guardava con sospetto, come fossimo dei cugini di campagna.

Ma se togli le parrucche ai cugini di campagna li perdi, e ti ritrovi il quartetto cetra, e non è più la stessa musica.

L’intreccio era complesso e lungo, ricco di personaggi, con ingressi e uscite continui.
Il prete che doveva officiare il matrimonio era don Guerrino, chiamato don Guorri in onore alla canzone di Bobby McFerrin, Don’t Worry Be Happy, nel cui video, tra l’altro, compare Robin Williams, una dotta citazione, che probabilmente, capivamo solo noi.
Gli altri personaggi erano lo sposo, l’architetto Serafino, il suo testimone orbo chiamato Raiban, il capo cantiere Toni Cazzola, l’organista Elvis.
La sposa però non arrivò al matrimonio e al suo posto arrivò Ernesto Bosegato di Radio Aladino con la rubrica Sposi on the air. L’intreccio si costruiva attorno al tentativo dello sposo mancato di ritrovare la sua sposa con l’aiuto del Bosegato.



L’inseguimento percorreva vari luoghi e incrociava vari personaggi, alberghi a ore dove dormivano solo persone sposate, non tra loro, ma pur sempre sposate, fast food di stazioni di servizio gestiti da camerieri muti, bracconieri che pescavano con le bombe a mano, un eremita di nome Ezechiele che invitava al pentimento frustando gli altri:
«Soffri, soffri, soffri per il tuo dolore, tu soffri e io mi pento!»
Al quale si rispondeva:
«Ma non si potrebbe fare che lei soffre e io mi pento?»
Tra i personaggi c’era anche Tatiana, cameriera tuttofare regalo di nozze. Era una brava attrice, eravamo orgogliosi di essere riusciti a trascinarla nel gruppo. Purtroppo però fuggì in fretta.


Alcune invenzioni erano geniali, ad esempio la scena di un tentativo di suicidio, impostata in modo da protendersi oltre la ribalta: con una tavola avevamo costruito una passerella a sbalzo verso la platea in modo che con il giusto peso dietro come zavorra, cioè la stazza di Fayo fino a che non dimagriva, si poteva camminarci sopra, sporgendosi verso la sala senza cadere. Rompere, o meglio attraversare, la quarta parete era d’effetto.
Costruimmo lo spettacolo provando dentro al consorzio, tra le pareti nere. Riuscimmo anche a fare la nostra prima prova con pubblico, in prima fila Fede.
In una scena Serafino, lo sposo, chiedeva un coltello a Menelao per suicidarsi.

Non avevamo tutti gli accessori, Menelao aveva solo un tagliaunghie. 
Serafino lo guardò, poi lo aprì e disse
«mi darò molti colpi»



Fede rise, rise di gusto. Una delle poche risate della sera.
La macchina scenica che avevamo costruito aveva bisogno di più persone dietro le quinte che in scena. Dovevamo capirlo che qualcosa non andava.

La prima venne organizzata nella piazza del Comune. Per l’occasione venne chiusa anche la strada principale, il traffico dirottato su vie parallele. Ormai eravamo consapevoli che il pubblico sarebbe stato numeroso. Infatti la piazza si riempì, davanti al palco una distesa di persone comodamente sedute su sedie diverse e più robuste rispetto allo spettacolo fatto nel consorzio. Questa volta nessuno cadde a terra, ma qualcuno si alzò andandosene prima della fine. Uno spettatore venne dietro le quinte a chiedermi quanto durava ancora lo spettacolo.



Lo spettacolo era lungo, troppo lungo, oltre le due ore.
La trama reggeva, le scene erano comiche, ma era difficile continuare con i cambi di costume, di scena, di ruoli; alla fine eravamo tutti stanchi morti e fradici di sudore.
Il pubblico succhia l’energia degli attori, si nutre delle loro forze. Il nostro pubblico aveva banchettato a lungo.

Ci chiamarono per la rassegna della nostra città, al Teatro San Marco.
Accettammo, ma non con Ciapa L’onda, era da sistemare prima di essere messo ancora in scena.

Ci fu un errore, o fu confusione, e alla fine ci ritrovammo in rassegna con Ciapa L’Onda senza volerlo.
Non era più possibile correggere le locandine appese ovunque, vennero pubblicati degli articoli di correzione in prossimità della replica, vennero cambiati i manifesti all’ingresso del teatro. Tutti noi, e anche gli organizzatori, cercammo di far capire che non c’era Ciapa L’onda ma una replica di Alluxinati, ma purtroppo all’epoca non c’erano i social, le persone bisognava contattarle direttamente.

Non bastò. Il pubblico arrivò numeroso, alla cassa ci furono confusione e rimostranze. Fui chiamato per parlare alla gente. Alcuni andarono via arrabbiati, altri rimasero lo stesso. Replicammo Alluxinati, consapevoli di avere ingannato e deluso parte del nostro pubblico.
Lavorammo ancora a Ciapa L’onda, ma senza convinzione, senza la giusta dose di follia e di creatività che può trasformare un allestimento, donando il picco di energia necessario. 

Eravamo stati presi dalla vita reale, il lavoro, la famiglia, i figli, le case: tutto questo ci raggiunse. Era sempre stato lì al nostro fianco, attendeva solo un nostro segno di debolezza, un nostro momento di cedimento.

La realtà, appena scorse le crepe nel muro che separava le due stanze di fantasia e realtà, lo fece crollare. Le priorità si mischiarono tra loro; non c’era più lo spazio riservato solo al nostro mondo.

Il rito puntuale delle prove veniva infranto da continui e vari imprevisti. La realtà rallentava tutti i nostri movimenti, non più come un gioco imposto da una fantastica manovella, ma come un’ avvolgente gelatina di responsabilità.



Alla fine successe l’irreparabile: un fatto grave, per colpa dello sposo di Ciapa L’onda.

Comprendemmo allora che le doti benedette e protettive dei tè alla Medjugorie, che fino ad allora avevano allontanato il maligno, erano finite. Il maligno era tornato, ci aveva messo lo zampino, solleticando l’ugola, spingendo per uscire.

Loris era in ritardo nel cambio costumi, io ero da solo in scena, teso, stanco e agitato.
Il ritmo stava calando, avevamo bisogno di uno scatto di reni per portare alla fine lo spettacolo, stavo improvvisando a ruota libera nell'attesa del prete.

Forse in testa collegai prete a dio, e dio non va mai nominato invano, soprattutto su di un palco dove quello che si dice deve essere evidente.
Su di un palco quello che si fa e si dice acquista la dote di cosa possibile da fare.
Per questo gli attori su di un palco hanno un’etica che impedisce, o dovrebbe impedire, loro di compiere atti o dire cose che possono ferire.

Per questo gli attori non possono bestemmiare.

Io lo feci. Senza volerlo, senza accorgermene, ma con molto mestiere, scandendo bene le parole e pronunciandole come si deve, ad alta voce.

Eravamo stati invitati da una parrocchia, nelle prime file c’erano i ragazzi del catechismo e il prete. Fu complicato tentare la rimonta e far dimenticare l’orribile episodio.

Tatiana abbandonò la compagnia e di Ciapa L’onda non si parlò più.



Poi demolirono il consorzio dove facevamo le prove. Ci invitarono a spostarci, ma noi non avevamo un altrove, un luogo, uno spazio.

Smontammo il palco per recuperare i pannelli, portammo via più cose possibili.

Demolirono tutto per far spazio a un parcheggio. Passando per strada vedevamo i calcinacci dipinti di nero che erano stati le nostre quinte. Spuntavano travi spezzate che prima sostenevano il nostro palco, sembravano ossa fratturate, vederle ci provocava dolore e amarezza.

Eravamo consapevoli della fine imminente della nostra avventura.