Pagine

domenica 26 marzo 2017

capitolo 8 'Na Sgresenda nel Cuor.

Teatro n. 3 

'Na Sgresenda Nel Cuor


Poi arrivò la seconda capra, di nome Frank.
Non era femmina, ma maschio, e di professione regista.
Nel 1946 Frank Capra diresse It’s a Wonderful Life, La vita è meravigliosa.


Vi si narrano le vicende di un angelo di seconda classe, Clarence, che per conquistare le ali deve salvare un’anima perduta.


Il nostro angelo si chiamava Celestino Daddio e aveva due aiutanti: i menestrelli del tempo Crono e Metro. L’anima perduta, e perduta parecchio, era Leopoldo Scortegagna.

Fayo e Gnagno, erano tornati dalla naja, ma Ivano continuava ancora a coltivare le sue pianticelle, e Bigi a saltare. Al ritorno però non erano più interessati al teatro: Ivano stava scivolando in un mondo criptico di anarchia e chiusura e si stava allontanando da noi e da tutto, Bigi lo seguiva in silenzio.

Ci eravamo costruiti dei ruoli ed ognuno di noi aveva una maschera che indossava quando entrava nel gruppo. Servivano coraggio e carattere per sfilarsi dal personaggio ed essere se stessi.

Il gruppo si era ridotto per normale evolversi della vita, rimanevano i più convinti e appassionati.

Si provava da Loris, in soffitta, quasi ogni sera, senza copione, solo tracce ed idee.


Io ero ancora in servizio di obiezione, quindi mi fu affidato il compito di inventarmi dei monologhi da usare per interpretare Celestino Daddio, ruolo di giunzione tra una scena e l’altra. Nessuna prova assieme fino al debutto.







Leopoldo Scortegagna, perno attorno al quale si creò la serie di eventi, fu affidato a Capo, mentre tutti gli altri continuavano a ruotare, cambiando personaggi.


Tutte le scene si sviluppavano attorno alla trama elementare: costringere Leopoldo alle nozze per permettere all’angelo di ottenere le ali di prima categoria.



Dopo aver svernato nella soffitta di Loris, chiedemmo di poter usare il Lux anche se chiuso.Ci diedero una chiave, entrammo da una porta laterale: fu come tornare a casa.

In un angolo, con alcuni pannelli bianchi, ricavammo un luogo raccolto illuminato da un faro al neon procurato da Fayo, che quando disse: «è antiscoppio, così non ci succede niente» ci fece preoccupare tutti.

In mezzo, una cassa da spedizioni dipinta di nero, alle pareti manifesti vari. Come sedute, delle panche. In quell’angolo si discuteva, si parlava, si mangiava e si beveva, poi si saliva a provare sul palco alla luce di un paio di fari.

Eravamo da soli nel teatro vuoto e scricchiolante.

Raramente passava Ivano a salutare, ma era disinteressato e non partecipava alla nostra follia creativa, forse perché cominciavamo ad avere degli schemi, a seguire un ritmo ed una logica teatrale contraria al suo spirito folle e visionario.
Sopra il palco allestimmo anche la scena, ignifuga a modo nostro: una struttura in ferro con delle tende, gli oggetti recuperati ovunque, un letto, un comodino, una panchina e altre piccole cose. 





Trovare un manichino fu complicato, ma ci riuscimmo.

Il manichino femminile era indispensabile per la scena in cui Leopoldo entrava da un sarto per cambiare l’abito strappato in una rissa, ma a causa della sua miopia scambiava il manichino per una procace signora.


Il manichino veniva spogliato dal sarto per mostrare i vestiti al suo cliente Ugo La Tocca e Leopoldo si illudeva che la procace signora volesse sedurlo, spogliandosi.





Discutemmo a lungo su quanti capi si dovessero sfilare per non scivolare nella volgarità, si crearono due fazioni: nudo integrale oppure mutande e reggiseno. Alla fine non togliemmo più neanche la gonna, qualcuno aveva disegnato un pube osceno al manichino.





Una delle scene più divertenti era ambientata da un barbiere vagamente fascista, Gino Forbeseta, il quale apprezzava il suo garzone muto, Elia, assunto per il nome.
Gino lo chiamava continuamente Elia Elia Alalà, minacciando di fargli bere l’olio. «Vogliamo fare i furbi? Vogliamo fare le comiche? Giochiamo a Stanlio e Olio?»

Queste erano alcune delle battute, e funzionavano.

La scena era giocata al ritmo di musiche generate dalla radio, ritmo che condizionava i movimenti degli attori. Con garbo, i due facevano accomodare Leopoldo sulla poltrona e gli legavano al collo il telo rosso da barbiere.

A tempo del Sirtaki di Zorba, il povero Leopoldo veniva schiumato in modo sempre più frenetico, poi, al ritmo dell’Estate delle Quattro Stagioni di Vivaldi, Gineto Forbeseta e il suo aiutante Elia venivano posseduti da rasoio e forbici e mentre tentavano di avventarsi su Leopoldo questi scattava in piedi spegnendo la radio.
«E adesso calmiamoci con una musica rilassante» diceva Leopoldo, sintonizzando la radio su una stazione di musica tranquilla.
Purtroppo per lui il dj cambiava di colpo genere proponendo El gato montes, eccellente e veloce paso doble da corrida spagnola: Leopoldo balzava in piedi con il telo rosso in mano mentre Gineto Forbeseta diventava il toro ed Elia saltava sopra la sedia da barbiere incitando alla corrida.
Alla fine Gineto toro stramazzava al suolo ed Elia, repentinamente dotato di parola, esclamava «matalo, matalo».


Leopoldo chiudeva allora con un «mato sì, mati tutti e due!» uscendo quindi tra fragorosi applausi.






Nelle altre scene si incontravano vari personaggi: l’ubriacone Toni Potrella che girava le osterie alla ricerca di sua moglie; l’investigatore Verza con l’allampanato Pisello, dall'impermeabile stile Humphrey Bogart in Casablanca; oppure un demoralizzato barista che proponeva improbabili cocktail, per ritrovarsi a vendere solo ombre.




L’esordio si tenne nel cortile del consorzio.
Estate, un palco e le sedie di fronte, tante sedie, sedie con il telaio in ferro e la tela, affittate da una Pro Loco. Iniziammo lo spettacolo.







Ma arrivati a un certo punto, durante la recita, cominciammo a vedere gente che si schiantava per terra. Non capivamo bene perché, finché non crollò uno in prima fila e capimmo: le sedie in tela erano rimaste piegate per molto tempo, e alcune si erano rovinate e si strappavano nella piega, facendo rovinare a terra chi c’era seduto sopra.
Verso il fondo poi ci fu un po’ di scompiglio, una donna incinta aveva rotto le acque; si alzò insieme ad alcuni amici e andarono via insieme ridendo come matti.

Alla fine anche gli altri spettatori uscirono ridendo, ma senza partorire.

Lo spettacolo andò bene, molto più di quanto sperassimo.


Iniziarono a chiamarci in giro, arrivarono anche articoli e recensioni: “Parlare di pienone per questo primo appuntamento della rassegna Fuori Porta starebbe all’effettiva presenza di pubblico come la definizione di acquazzone al Diluvio”, nello stesso articolo il critico Jacopo Bulgarini d’Elci si dimostrò molto arguto scrivendo: “chi conosce i Monthy Python, mitico gruppo inglese, troverà nei Nostri uno stile non dissimile”.





Alcuni critici osservarono una regia carente, ma si sbagliavano: la nostra era una regia assente, non avevamo né regista né testi scritti e non potevamo dirlo perché nessuno ci avrebbe creduto. Questo garantiva originalità ai nostri spettacoli, ma un leggero nervosismo agli attori.




Una volta il nostro Comune ci diede un contributo, noi non avevamo richiesto niente e l’arrivo di soldi ci sorprese.

Decidemmo di accettarli e di usarli per finanziare un progetto di Mani Tese.

Spedimmo all'assessorato una busta di ringraziamento con la ricevuta del versamento fatto. Non arrivarono più contributi.

La nostra comicità funzionava, dove andavamo la gente arrivava sempre numerosa.
Ci capitò anche una replica in un istituto per malati mentali, era una giornata di apertura alle famiglie e invitarono noi per animarla: ci sentivamo a casa nostra.
Entrando per montare la scena un simpatico signore ci avvicinò uno alla volta e chiese a tutti dei soldi. Fayo, che arrivò per ultimo, venne informato, e quando il signore gli andò vicino Fayo lo anticipò dicendogli: «scusa, hai un po’ di soldi?» Il tizio rispose «non sono mica matto io!» lasciandoci perplessi.

Da dietro la scena guardavamo il pubblico, scoprendo una donna che cullava una bambola, un signore che fumava una sigaretta al contrario continuando a scottarsi le labbra, un altro che palpeggiava la sua vicina senza che questa reagisse in alcun modo e degli altri che ridevano. Erano i famigliari.
Poi Capo si sedette dal barbiere e la sedia si ruppe. Rimase incastrato e non sapendo come uscirne si mise ad imitare un pilota di formula uno, ingranando marce inesistenti, uscì di scena tra gli applausi, lui e la sedia.


Sul palco il barbiere e l’inserviente rimasero soli.

domenica 19 marzo 2017

capitolo 7 l'obbedienza non è mai una virtù

L’obbedienza non è mai una virtù

I responsabili del Lux si impegnarono anche a fornire un servizio di cineforum scolastico per la sezione staccata della scuola professionale Almerico Da Schio.
Poiché tutti gli operatori erano pure studenti, per proiettare i film era necessario bruciare scuola.
In pratica ci istigavano a delinquere.

Venne proposta la proiezione del film Gandhi, con uno strepitoso Ben Kingsley molto prima che i suoi geni impazzissero, facendolo diventare il potente Professor Xavier.


Il film durava tre ore e un quarto. Venni incaricato di proiettarlo da solo per quattro volte, nessuno poi si sorprese quando decisi di fare domanda come obiettore di coscienza.
La quarta proiezione del film coincise con l’ultimo giorno di vita del mio impermeabile nero dagli strani riflessi.
Gli studenti preferivano stare in galleria, io invece, conoscendo il film perché già visto più volte, decisi di sedermi in platea. Al tempo c’era già la macchina che per proiettare non usava più i carboni, ma una lampada: non serviva più aggiustare lo scorrere dei carboni.
Una volta fatta partire la pellicola, scesi dunque in platea, ma dimenticai di chiudere la sicurezza che bloccava la ruota inferiore dove si avvolge la pellicola.

Nel corso della proiezione, nel silenzio di una scena, si sentì un gran fracasso in sala proiezione, poi un rumore di tessuto strappato dalla platea, accompagnato da molte esclamazioni pittoresche, e poi un correre sulle scale verso la sala di proiezione.
La pizza inferiore si era sganciata con gran fracasso, io ero saltato in piedi, senza accorgermi che un bracciolo della poltroncina si era infilato nella tasca dell’impermeabile: lo scatto causò lo strappo di tutto il lato sinistro della giacca, dalla tasca alle ginocchia.
Intanto, in sala proiezioni, c’era il disastro: la pellicola continuava a scendere senza potersi avvolgere, e si infilava ovunque come un nero e piatto serpente lunghissimo.

Lo spirito ribelle diffuso nel gruppo selvaggio, unito all'impegno sociale, causarono anche un effetto collaterale. E ci mise lo zampino anche Don Milani, con L’obbedienza non è più una virtù.
Cinque furono le domande di obiezione di coscienza, gli obiettori del gruppo furono tre.







Capo in un paesetto di montagna, Loris in Toscana, io in provincia di Milano, per Mani Tese.
Ivano e Bigi, invece, su cortese ma ferma richiesta dei rispettivi genitori, ritirarono la domanda.

Per Ivano in particolare fu un duro colpo, la temuta ma ignorata realtà piegò il suo volere, costringendolo ad indossare una divisa. Forse per questo affinò le sue conoscenze di erborista.

Essere obiettore a quei tempi era dura, facevi 20 mesi.
Una volta presentata la richiesta, venivi contattato e sottoposto ad interrogatorio dai Carabinieri.
«Lei cosa farebbe se, con una pistola in mano, trovasse a casa un ladro che ha ucciso sua madre, suo padre ed i suoi fratelli?»
«Lo sa che in caso di guerra gli obiettori vengono usati per recuperare i feriti dopo gli scontri? Anche se ci sono le radiazioni atomiche?»

Non eravamo simpatici ai Carabinieri, il curioso è che simpatici non lo eravamo nemmeno al parroco, nominò in una predica i tre obbiettori del paese: «Tra noi ci sono persone che hanno deciso di non interessarsi alla nostra patria, di non difendere i suoi valori».

I genitori dei sovversivi cominciarono azioni di pressing per demolirne il desiderio.
Mio padre, alpino, aveva costruito una cappelliera per metterci sei cappelli alpini: iniziò con il suo, e con quello del primogenito; poi venne la serie dei tre cappelli da aviere.
Alla fine la cappelliera sparì: gli obbiettori non portano divise.

Mi auto precettai e partii.



A Gorgonzola, in provincia di Milano, lavoravo per Mani Tese.
Spiegavo il mio lavoro in una orrenda battuta: «a mezzogiorno mangio la pastasciutta con le mongole e al pomeriggio prendo il tè con gli spasticcini».

Passavo molto tempo con i ragazzi disabili di una comunità. Mangiavo e giocavo con loro.
Lì conobbi Giorgio, idrocefalo, cieco e in sedia a rotelle. Aveva il terrore dei cani perché li sentiva abbaiare. Un giorno portai un cane lupo, docile, che viveva in un recinto vicino a dove dormivo, un poco alla volta Giorgio si avvicinò e lo accarezzò. Non ebbe più paura dei cani.

A Gorgonzola avevo a disposizione tre stanze, più una specie di angolo cottura in mezzo a scaffali di materiale vario raccolto per essere spedito. Nel bagno c’era un lavandino di 30 centimetri, una vasca di un metro con la seduta e una camera con due letti. Trovai un mangiacassette con la cassetta Robinson di Vecchioni.

Una volta mi diedero della pasta in scadenza da mangiare, le microstelline per i neonati: condite con burro e gorgonzola non erano male.
Alcune sere venivo invitato a mangiare in casa di alcuni amici che avevo conosciuto lì, come Muscolo e Fiorella. Mi piacevano i loro cognomi, li trovavo buffi, immaginavo il signor Fumagalli mentre si accendeva un galletto. Poveri pennuti accesi e aspirati. Ma il cognome che preferivo era Scaccabarozzi: cosa fossero i barozzi non lo so, e perché si scaccassero non l’ho mai capito.

Poi arrivò Erter, scappato da una comunità di tossici. Lo misero al mio fianco e successe di tutto, anche cose brutte, parecchio brutte. Scoprii il lato oscuro della droga, e di come fosse difficile riuscire a domare il demone. Fui vittima delle mille astuzie messe in atto da Erter per riuscire a sballarsi.

Dove dormivo c’era anche il deposito dei farmaci da spedire per i vari progetti: lui cercava farmaci da mischiare con il vino o i superalcolici.

Una volta lo trovai steso a letto, pallido e rigido, non riuscivo a svegliarlo neanche a sberle. Chiamai aiuto e arrivò il responsabile di Mani Tese. Era un buon uomo imponente, sembrava un babbo natale che si fosse mangiato tutte le renne, da quanto era grande e grosso.

Arrivò, vide Erter steso, prese un secchio d’acqua, glielo rovesciò addosso, poi lo colpì con degli schiaffi che a me avrebbero fatto svenire. Invece Erter si svegliò. Dopo una lunga e accesa chiacchierata uscì dalla nostra stanza, dando un calcio alla porta, scardinandola. Il giorno dopo la porta era riparata ed i medicinali spariti.

Un altro lavoro da fare era svuotare le case dei morti se i familiari ti chiamavano. Recuperavamo vestiti di buona qualità per spedirli.

Capitò un morto che aveva la mia taglia, nel suo armadio trovai delle belle giacche. Durante il lavoro una sveglia quadrata di plastica rosa a pile sopra il comodino si mise a suonare, la povera vedova la spense ed uscì dalla camera invitandomi a portare via tutto: in quel periodo giravo con una bella giacca nera in lana della Marzotto e una sveglia rosa in tasca, non avevo l’orologio e per ricordarmi gli appuntamenti ed era pratico programmare la suoneria della piccola sveglia. Purtroppo le scarpe del morto erano troppo grandi per me, peccato perché erano dei bei mocassini.

Arrivavo a Gorgonzola la domenica sera, in treno, e tornavo il venerdì in autostop, 210 chilometri.
Una volta mi scaricarono a sei chilometri da casa. Mentre facevo l’autostop, passò mio padre con la sua 127 bianca. Suonò, mi salutò e andò a casa, senza caricarmi.

Per un breve periodo arrivò anche un’altra persona, un clandestino in cerca di lavoro.Andavamo a bere il caffè in una cascina che vendeva prodotti biologici.

Con le tazzine davanti il barista mi guardò, muto ed intensamente, stavamo ascoltando il litigio tra Erter e il clandestino: litigavano sul diritto di rubare le autoradio, spettava di più ai tossici o ai clandestini? Per iniziare i venti mesi di obiezione mi auto precettai, dopo il caffè mi auto congedai, unico caso in Italia.

Capo serviva i pasti e si occupava degli anziani isolati nel piccolo comune di montagna dove prestava servizio. Aveva una casetta da condividere con altri obiettori. Visse lì per venti mesi e ingrassò di venti chili.

Loris prestò servizio con la Croce Rossa di un paese, in Toscana. Un giorno arrivarono sul luogo di un incidente mostruoso tra un camion e un furgone, dai cespugli attorno spuntavano moncherini di gambe. Nell'ambulanza, insieme all'autista del furgone, caricarono anche Loris, svenuto.



Le gambe comunque erano finte, il furgone trasportava un campionario di calze da donna.


leggi il capitolo successivo


leggi dal primo capitolo

sabato 11 marzo 2017

capitolo 6 automobili

Tempo libero n.2 AUTOMOBILI

Cominciarono ad arrivare le patenti e con esse le macchine. La più usata dal gruppo fu la R4 di Loris. Era la macchina giusta per lui. 





Il cambio della R4 è a fianco del volante: ruotando il polso verso sinistra e spingendo in avanti si innesca la prima.
Io avevo una Dyane 6 rossa, anch’essa con il cambio a fianco del volante, solo che ruotando il polso a sinistra e spingendo in avanti c’è la retromarcia.
Una volta soltanto guidai la R4 di Loris, inserii quella che credevo essere la retromarcia e mi schiantai contro la macchina parcheggiata davanti.


Correva voce che la R4 non perdesse mai di stabilità in curva, neanche sterzando bruscamente ad angolo retto. Loris può garantirvi che non è vero, lui lo collaudò capottando con la macchina.





La Dyane 6 era economica, spaziosa e divertente, calda d’estate e fredda d’inverno.
Per evitare che la pioggia entrasse dentro la macchina avevo aggiunto una piccola grondaia sotto il tettuccio, nel lato posteriore. Sostituii i sedili davanti, che erano rigidi, scomodi e non reclinabili. Comperai due sedili di una Simca 1000 da uno sfasciacarrozze. Con l’aiuto di Pio forammo il telaio della Dyane e agganciammo i sedili, imbullonandoli. Aggiungemmo un po’ di sicurezza attaccandoci anche le cinture, visto che la Dyane ne era sprovvista
.
Una volta installati i sedili, bastava tirare una levetta ed entrambi si ribaltavano con estrema facilità. Utile se per caso si voleva fare un pisolino, magari in due. Rivestiti con copri sedili bianchi facevano un figurone. La macchina superò anche la revisione, nonostante le pesanti modifiche strutturali. Della Dyane 6 non funzionava il freno a mano, una specie di manico da ombrelle che si doveva tirare verso i sedili posteriori, ma il riscaldamento funzionava sempre. D’estate dovevo riempire di stracci i condotti dell’aria calda.

Non correva molto. Una volta ci superò una Fiat 127 guidata da quattro ragazze. Mi convinsero a seguirle, così accelerai oltre le capacità della Dyane. La 127 non mollava e stava davanti a noi. Ai 110 il tettuccio si aprì di scatto, noi, indifferenti, continuammo la corsa. Ai 120 la guarnizione del tettuccio si staccò e ci sbatté in faccia. Ci fermammo.

Organizzammo un capodanno in una vecchia casa in montagna. Dietro la casa c’erano tre posti auto creati su tre terrazzini di pietra alti circa un metro l’uno. Per raggiungerli bisognava scendere una stradina. Dopo l’ultimo terrazzo c’era un dirupo. Fui l’unico a parcheggiare su quei terrazzi, sul primo in particolare. La mattina dopo andai a prendere la macchina, feci retromarcia e visto che ero in discesa decisi di non fidarmi solo del freno a mano, e scesi per cercare una pietra da mettere sotto la ruota. Ne avevo appena trovata una quando la Dyane si mosse e cominciò a correre verso il dirupo. Misi il sasso ma la macchina lo saltò via sterzando verso il secondo terrazzo. Lo saltò facendo un volo di un metro. Poi saltò anche il terzo rimbalzando come un pallone. Cominciai a gridare e afferrai il paraurti davanti trattenendo la macchina in bilico sul dirupo.

Uscì Capo, mi vide e vide la macchina che lentamente scivolava verso valle. «Aspetta, aspetta che faccio una foto!». Per davvero andò a prendere la macchina fotografica. Poi in tutti riuscimmo a sollevare la Dyane. L’unico danno fu alla marmitta, che era diventata piatta. La tolsi con una pinza e tornai a casa, rombando.

Anche Marco aveva la Dyane 6, ma azzurra. L’indicatore del serbatoio era rotto, così girava sempre con una tanica di benzina. Una sera si fermò lungo una strada, con Bigio. Presero la tanica, ma non vedevano bene il buco del serbatoio a causa del buio. Poi cominciarono a versare benzina. Bigio accese l’accendino per fare luce. La tanica si incendiò, Marco si girò di scatto versando benzina su tutta la fiancata e gettò la tanica su una siepe. La tanica scoppiò, la siepe s’incendiò.

Partirono al volo con la fiancata in fiamme che si spense col vento.
Da allora la sua Dyane era tinta di azzurro da un lato e nera dall'altroBigio non salì più con Marco.

Poi c’era Fayo, al quale non serviva parlare per farsi capire e portava sempre con sé un’intera contraerea fantastica, montabile in 5 minuti e con dovizia di particolari, che mimava in rapidità. Guidava la Prinz di suo padre. Chiamata Igloo per la sua accogliente temperatura invernale.




Su tutti emergeva Bigio, soprannominato il Villeneuve dei poveri con la sua Cinquecento blu e tracce di colori vari. La Cinquecento era ad accensione con levetta a fianco del cambio e doppietta obbligatoria per le marce. La tecnica della doppietta era necessaria sulle Fiat, dalla 600 fino alla 126. Si usava prevalentemente per il cambio marcia. Si faceva così: frizione, colpo di acceleratore a vuoto, inserimento marcia ed accelerata. 

Quelli bravi la facevano in fretta e senza “grattare”, lui non grattava, era il mago della doppietta. La prima doppietta la fece ancora con il foglio rosa. La macchina era una 126 giallo canarino, che mio fratello ci aveva prestato a sua insaputa. Bigio guidava con me al suo fianco. Uno dei due sudava, e non era quello al volante.

Bigio fece una doppietta meravigliosa scalando le marce per parcheggiare lungo il viale dei tredici cipressi del cimitero. Da allora il viale è dei dodici cipressi, ma la doppietta fu memorabile. 

Una volta il cambio si ruppe: girava solo in terza. Cambiammo autista e l’auto fu affidata a Fayo, il più audace tra noi. Organizzammo due auto pattuglia con lo scopo di bloccare gli incroci, le rotatorie non erano ancora state inventate. Arrivati agli incroci qualcuno scendeva di corsa bloccando le corsie, tutti si fermavano curiosi in attesa di vedere cosa succedesse. Rombando alla massima velocità possibile, per una Cinquecento in terza, Fayo arrivava sgommando e correva oltre, subito inseguito dalle due auto civetta, tra le invettive degli altri scioccati automobilisti costretti alla sosta.

Bigio uscì di strada varie volte, una volta anche a carnevale, vestito da giullare.
I soccorritori videro il viso bianco, e pensarono fosse svenuto, lui si girò, videro il viso rosso e pensarono di svenire. Con la bella cugina triestina, si schiantò a bordo strada, donandole in ricordo un piccolo sfregio su quel volto incantevole.

Ruppe i freni e spinse la macchina di un amico oltre lo stop, ma lui si fermò giusto sulla riga, il suo amico addosso un furgone che passava.

Per salutare un amico parcheggiato a bordo strada, volle avvicinarsi alla sua Dyane 6 e rigò tutta la fiancata della macchina ferma. L’amico lo accolse molto festosamente.

Corre voce che la sua macchina fosse fatta di una parte di lamiera, una di stucco da carrozziere e una di cartapesta.



Ma tutto venne interrotto dall'arrivo delle cartoline gialle. Lo Stato si accorse di noi.




Teatro n.2

Il nostro magnifico mondo incantato, fatto di feste, viaggi e palcoscenico, esisteva parallelo a quello reale. Erano due distinti universi, non in contrasto e neanche in opposizione. Quasi due stanze attigue della stessa casa. Ci muovevamo con indifferenza passando da una all'altra senza mai pensare che, un giorno, una delle due porte si sarebbe chiusa. Il mondo reale indugiava su di noi, ma sempre più spesso inviava dei messaggi. 

La realtà ci spedì, attraverso il ministero della difesa, delle cartoline gialle. Con l’effetto di deprimere alcuni.

Per superare la depressione della chiamata, Gnagno e Fayo si ritirarono in meditazione, in un appartamento di Gnagno, al mare. Invitarono anche me.

Il mare d’inverno, secondo Loredana Bertè, è romantico, secondo noi d’autunno è triste. Arrivammo muniti di sacchi a pelo. L’appartamento era senza mobilia e senza riscaldamento, ma c’era l’acqua, la corrente elettrica, una lampadina. Rimanemmo lì un po’ di giorni. Parlavamo tra noi, sbranavamo polli allo spiedo con le mani, accampati sopra fogli di giornale per non sporcare la moquette. Cercavamo di superare la malinconia. 

Il mio compito era quello di supporto, la naja non mi riguardava, per il momento: avevo fatto domanda di obiezione di coscienza.

Anche Ivano e Bigi fecero domanda, ma le loro famiglie, con garbo, li convinsero a ritirarla. Ivano si ritrovò aviere. Si poteva riconoscere l’angolo della camerata dove dormiva anche da fuori della caserma. Sul suo balcone approfondì gli studi di erborista autodidatta dedicandosi alla piantagione in vasetti di erbe aromatiche. Di una in particolare, a dire il vero.

Il destino di Bigi fu diverso. Fosbury, nel 1968 insegnò una tecnica di salto che Bigi scoprì essere adatta a lui. Quindi passò la naja allenandosi, da sdraiato. Quando toccava a lui saltare, si alzava, correva e con un bel Fosbury superava l’asticella. Alla fine non rimpianse molto il mancato servizio civile.

Ci chiesero un nuovo spettacolo.
Accettammo, anche perché Ivano confidava nel fatto che la naja la stava facendo vicino a casa. Così si fece. Provavamo da Loris, allestimmo un insieme di gag e parodie. Per la serata della prima tutti i militi tornarono in licenza e salirono sul palco. Dato che il Lux era chiuso, non si sapeva bene dove recitare, visto che era inverno, ma arrivò un circo.

Un piccolo circo a conduzione familiare, dove il cassiere diventa clown, poi giocoliere, poi mago ed infine acrobata. La moglie era domatrice di un pony, di un cane e di una capra. La figlia passava negli intervalli a vendere da bere, poi con il pony a farlo cavalcare dai bambini, e poi con un grande pitone albino a fare le foto con la polaroid. Ci furono molti intervalli, ed ogni cosa aveva un prezzo.
Erano artisti girovaghi e vivevano alla giornata, così accettarono volentieri l’affitto per una sera, probabilmente guadagnandoci.

Lo spettacolo iniziò con Ivano e due palline da ping pong. Nessuno sapeva cosa avrebbe fatto, così lui lo fece. Lasciò cadere le palline che rimbalzarono sul palco poi caddero.

«Mi sono cadute le palle» furono le sue prime parole.

Il presidente della biblioteca le raccolse, con il sospetto di essere caduto in un tranello. Recitare in un circo è strano, non hai la gente davanti, ma dappertutto, devi girarti e agire per tutti. Per cambiarci i costumi dovevamo uscire dal tendone, entrare in un torpedone che per metà era senza sedili. C’era una lampadina appesa in mezzo a quella strana corriera, e con quella poca luce ci arrangiavamo. Legato davanti al torpedone un cane lupo faceva la guardia. Era abituato ai circensi e considerava noi degli intrusi o dei ladri, forse il suo pasto. Abbaiava ferocemente ogni volta che salivamo e scendevamo dalla corriera. Alla fine fu utile come segnale l'arrivo degli attori per il presentatore.

Gnagno e Fayo erano in licenza, così li inserimmo nella scena finale: una parodia di Cenerentola. Gnagno fece Cenerentola al ballo, vestito azzurro, parrucca nera e occhiali da sole, Fayo il valletto del principe, Capo il principe. Dopo il ballo il principe triste con in mano uno scarpone anfibio cercava la sua principessa. Nel farlo si faceva aiutare dal valletto. Con una carriola i due passarono tra la folla requisendo le scarpe al pubblico. Alla fine svuotarono varie carriole sul palco e finì così, tra l’imbarazzo di tutti. 
Evitammo il lancio di scarpe e costringemmo il pubblico a frugare sopra il palco tra le scarpe di sconosciuti, un successo.


Gli amici erano felici per noi, alcuni, ad esempio mio fratello Giannino, davano suggerimenti, erano contenti e divertiti, in qualche modo volevano partecipare.

sabato 4 marzo 2017

capitolo 5 Improbabili Ritorni

Tempo libero n.1  IMPROBABILI RITORNI.

L'entusiasmo di Loris per l’autostop influenzò molto il nostro gruppo.


Anche il fatto di non avere soldi fu di aiuto. Così, con uno zaino e un pollice, si partiva. Una tappa obbligata era Taizé, dalle parti di Cluny, in Borgogna.




Taizé la visitammo tre volte e altrettante ne fummo espulsi. La quarta volta evitammo di tornare. 700 chilometri affidandoci al caso, e non era neanche il viaggio più lungo. Ci caricavano i camionisti e poi ci procuravano passaggi con le loro ricetrasmittenti CB. Nelle aree di sosta dell’autostrada passavamo di camion in camion.

I camionisti tra loro parlavano in codice: «sono sulla grande carreggiata con due gringhelli, devono prendere la carraia per …». Eravamo gringhelli e gringhelle.

Si dormiva fuori, sotto un cavalcavia o sul retro di una stazione di servizio. Poi arrivavi. A volte impiegavi un giorno, altre volte due o tre, ma arrivavi. Potevano succedere imprevisti lungo il viaggio, e alcuni furono proprio rocamboleschi.

Nei recinti dei pascoli, ad esempio, c’erano vacche e tori. Il toro controlla il suo harem e garantisce sicurezza e difesa del proprio territorio. Una sera, era già buio, Loris ebbe necessità di appartarsi, vide un recinto e ci saltò dentro. Fu così che scoprì che anche gli stalloni difendono il territorio. Infatti, nel nero pece della notte senza stelle, si sentì un potente nitrito ed un pesante scalpiccio di zoccoli sul terreno. Fu così che Loris si esibì nel migliore salto ad ostacoli al buio che nessuno prima di allora avesse mai sperimentato.

A Taizé ti accoglievano in una tenda con pagliericci, o anche niente, e dormivi lì per terra. Un anno Loris mostrò la sua vistosa cicatrice alla spalla, mentre io zoppicavo, da consumato attore. Due giovani suore si impietosirono e ci diedero il loro letto. Dormirono per terra, nella tenda comune, al nostro posto, le brave suore.

Incontravi tutte le lingue del mondo, e persone incredibili.
Un vecchio tossico che ti mostrava le autostrade di vene tutte rovinate dai buchi. Cercava di convincerti, o convincersi, che stava cambiando, anche se dopo un po’ ti chiedeva soldi, o almeno un limone. Oppure la bellissima spagnola mora che camminava scalza col suo vestito da flamenco giallo e arancione, leggermente pazza, ma andava bene uguale.

Ti dovevi impegnare iscrivendoti ad un gruppo: c’erano il cooking group, il cleaning group, il prayer group e molti altri. Noi creammo lo swimming group: andavamo a nuotare in un fosso lì vicino. Una sera ci incaricarono del silence group, ci diedero vari cartelli in varie lingue, dovevamo girare per la comunità ed invitare tutti a fare silenzio e a dormire. Trovato un prato, piantammo a cerchio tutti i cartelli e con i sacchi a pelo dormimmo beatamente avvolti dal rispettoso silenzio della comunità.



La chiesa di Taizé è maestosa, piena di lumini che calano dal soffitto, senza panche né sedie. In centro un grande Cristo crocefisso, sdraiato a terra. Molti si stendevano al suo fianco per pregare. Ivano dormì abbracciato al Cristo crocefisso, la scena era tenera e dolce, poteva sembrare un legame d’amore profondo. Purtroppo, il russare deciso nella grande chiesa silenziosa non poteva passare inosservato.




A Taizé c’erano le docce calde a pagamento, o le docce fredde, molto fredde, terribilmente fredde, ma queste erano gratis. Quando ci lavavamo i nostri ululati scuotevano il villaggio, ma era solo un modo per cercare di superare il trauma. Bigi una volta rimase incastrato in una doccia, sbraitando per il freddo fu costretto ad arrampicarsi sulla porta per uscire. Prima di lui, terrorizzati, uscirono tutti quelli che erano nei bagni.

Vivere senza spendere soldi era un’impresa complicata, ma la sfida ci colse preparati. C’era un negozio, una specie di bar con un piccolo supermercato dove comperavi quello che serviva, dal sapone alla birra: l’Ogiac.
Quando entravi ti consegnavano un biglietto dove veniva scritto quello che comperavi, all’uscita consegnavi il biglietto e pagavi. Era troppo facile: entravi in due, uno segnava nel suo biglietto tutto quello che prendeva, nel secondo biglietto segnavi gomme da masticare. All’uscita pagavi le gomme e nascondevi il resto.
L’anno dopo consegnavano un biglietto che alla fine si doveva restituire anche senza acquisti. Una persona un biglietto, ma non era impossibile, richiedeva solo più fantasia. Si entrava e ti davano un biglietto. A fianco, fuori dall’Ogiac, c’era una finestra dove potevi comperare hot dog con la mustard, una senape, abbastanza forte. Perché i francesi chiamino mostarda la senape non si sa, ma funziona così. La procedura era semplice: entravi, prendevi il biglietto e andavi in giro cercando gli hot dog, poi ti avvicinavi alla cassa, sfoderavi il miglior sorriso ed il peggior inglese, operazione piuttosto semplice visto la nostra conoscenza delle lingue, chiedendo alla simpatica cassiera dove comperare l’hot dog. Lei, cercando di aiutare lo sfortunato avventore ti spiegava che gli hot dog erano all’esterno. Con molti saluti e riverenze uscivi nascondendo il biglietto bianco. Quando tornavi, magari il giorno dopo, prendevi un nuovo biglietto comperavi di tutto ed in cassa lasciavi il biglietto bianco del giorno prima.

L’Ogiac poi decise di farsi pagare in contanti e subito quello che si comperava.

A Taizé non si trovava vino, ed era un problema perché con il vino si potevano organizzare brindisi e chiacchierate, anche, e soprattutto, con ragazze di altre nazioni.
È risaputo che il vino aiuta a comprendere meglio le lingue straniere, ma l’Ogiac vendeva solo birra. Ivano risolse il problema: «Scusate, ma se i preti dicono messa, spezzano il pane e bevono vino, in chiesa il vino deve esserci»Effettivamente il ragionamento calzava, ma chi ha il coraggio di andare a prendere il vino benedetto dentro una chiesa? Tutti. Tutti noi a turno andavamo in chiesa. Dietro l’altare maggiore una porticina portava in una stanzetta dove si teneva il vino per le messe. In effetti pensavamo di essere originali e un po’ malefici nel risolvere così la questione etilica. Brindammo con piacere e svuotammo in fretta la prima bottiglia di vino bianco, ma quando gettammo il vetro oltre la siepe, con molto stupore sentimmo il tintinnio di altri vetri. Qualcuno prima di noi aveva avuto lo stesso problema e trovato la stessa soluzione.

Bisognava anche procurare il cibo a costo zero.
Funzionava una specie di mensa dove prendevi una ciotola ed un cucchiaio, che poi dovevi risciacquare con sabbia e acqua e impilare. Ti davano il cibo solo se presentavi un bollino colorato, ogni settimana diverso dalla precedente. I bollini, grandi come francobolli, si compravano all’accoglienza. Questi bollini erano stampati in un foglio, da dove venivano strappati, e il contorno gettato, e quei preziosi ritagli erano la nostra salvezza. Prima cosa: impossessarsi dei pezzi scartati e mettersi in fila dove ci fosse una ragazza che serviva, possibilmente giovane; poi avvicinarsi, farsi servire, sorridere e fare un complimento carino con lo scopo di distrarla, quindi buttare il rettangolino di carta nel mucchio con i bollini veri. Era importante non farsi servire dalle suore e dai maschi.

È difficile fare complimenti alle suore e distrarle: sono vecchie di mestiere ed il fascino latino non suscita il loro interesse. Con i maschi è più complicato, puoi fare dei complimenti che potrebbero non essere graditi, il che è male, ma peggio, potrebbero essere graditi e quindi non privi di conseguenze.
A fianco della fila per il cibo c’era un tabellone, dove venivano appese le cose che si trovavano smarrite in giro per il campo. Un giorno, passando, Loris vide una striscia di bollini infilzata con una spilla; io creai un diversivo, facendo cadere la ciotola e creando confusione per attirare su di me l’attenzione della gente in fila. Bigi staccò i bollini.



Ma era una trappola.





Un malefico piano ideato per smascherare le nostre faticose piccole truffe.
Ci lasciarono mangiare poi vennero a dirci che i nostri bagagli erano all'accettazione ed il pullman per Cluny sarebbe arrivato da lì a poco. Fu un’ingiustizia: «è troppo facile fare i pastori per le pecore buone» «noi siamo le pecore nere, siamo più bisognosi del vostro aiuto» «vorremmo parlare, spiegarci, farvi capire che siamo pentiti».

Provammo in tutti i modi di convincere quei buttafuori del nostro vero pentimento, ma non funzionò.Anzi, si arrabbiarono parecchio quando Bigi disse «e poi il vino della vostra chiesa fa schifo!» Fummo espulsi.

Quella fu la terza volta in tre anni.
La prima volta fu di mattina. L’Ogiac era aperto, stranamente, visto che c’erano i vari gruppi di lavoro all’opera. Stavamo seduti al sole a berci una birretta, quando in quattro arrivarono chiedendoci se conoscevano lo swimming group. Con entusiasmo dicemmo: «siamo noi!» Ci fecero salire in corriera per Cluny, gli zaini erano già a bordo.

Il trucchetto dei cartelli per creare la zona silenziosa funzionò fino alle undici del giorno dopo. Giusto in tempo per salire la seconda volta sul pullman per Cluny.
L’ultimo pullman per Cluny fu memorabile. Loris, da nostalgico, pensò di lasciare un piccolo souvenir. Era da un paio di giorni che passava il tempo ad insegnare una canzoncina a due ragazze tedesche che non parlavano italiano, e quindi, probabilmente, non conoscevano neanche il dialetto veneto. Ma la famosa canzoncina di Fra Martino sì. Solo le parole erano un po’ diverse, anche se la rima, in fondo, c’era. Il frate era Fra Pierino, l’addetto al gruppo italiano, e le campane non facevano din – don – dan, ma la rima c’era e ricordava molto il famoso ip ip ip inventato a casa di Capo.

Mentre stavamo salendo per la terza ed ultima volta nel pullman, Loris vide le ragazze tedesche e le salutò: lui cantando il vero Fra Martino, loro in coro ad alta voce invece a rispondere con la versione alternativa e blasfema.

Non è vero che gli uomini di chiesa sono sempre pacati e tranquilli: quella volta erano indecisi se salire a bordo e strozzare il direttore del coro o stare a terra cercando di zittire le procaci fanciulle che si esibivano dimostrando una gradevole capacità di sacramentare a cappella nel nostro dialetto. La situazione colse alla sprovvista i bravi custodi quel tanto che bastò a far partire il pullman. A bordo, giurammo di non rimettere più piede a Taizé per paura di essere riconosciuti e con il fondato dubbio di essere schedati a vita, con tanto di foto.

Raffaele aveva dato la maturità e voleva fare un giro in autostop. Io volevo fare il servizio civile e quell'estate desideravo andare a Massafra, dove si svolgeva un campo scuola sulla nonviolenza, di una settimana. Andammo insieme, direzione Pianoro della Masseria a Massafra, Taranto: 950 chilometri. L’Italia è lunga e stretta, soprattutto lunga. Ci vollero due giorni. La prima notte dormimmo dietro una stazione di servizio, trovai un segnale stradale rotondo del diametro di un metro, lo posai tra i due argini di un fosso asciutto e ci dormii sopra, Raffaele invece dormì nel campo. La sera dopo arrivammo a Massafra. Era quasi notte, verso le ventitré. Un branco di cani randagi ci accolse e al nostro passaggio continuava ad abbaiare.



Quando cominciarono ad accendersi le luci di qualche finestra ci allontanammo dal paese e decidemmo di cercare il pianoro il giorno dopo. C’era un grande albero in mezzo a un campo arato da poco. A calci spaccammo alcune zolle per creare una zona piana per dormire. Poi stendemmo le stuoie e i sacchi a pelo. Mangiammo sgombro in scatola e pane in cassetta, con l’acqua. È importante avere l’acqua, perché lo sgombro ti secca la bocca, e crea un pastone che digerisci dopo vari giorni. Senza acqua rischi di morire strozzato dallo sgombro, e non è una bella cosa morire per colpa dello sgombro assassino.

La mattina successiva scoprimmo che l’albero segnava il confine di due proprietà: una arata, dove avevamo dormito rompendoci la schiena, l’altra un prato di soffice erba. La notte prima, troppo stanchi, avevamo scelto il lato sbagliato .Arrotolate stuoie e sacchi, indossati gli zaini, partimmo per il paese .Il caffè in vetro esiste solo nel Sud Italia, come la granita al caffè. Impossibile riuscire a bere una cosa più buona nelle mattine d’estate. Con un ultimo passaggio in trattore su una strada sterrata arrivammo al Pianoro della Masseria, dove vedemmo i trulli per la prima volta. Raffaele ci dormì, dentro a un trullo, io invece mi sistemai sulla terrazza della casetta nell’orto. Volevo dormire lì perché di sera avevo il cielo e infinite stelle da guardare. Alla mattina, scendendo per la colazione, passavo per l’orto e mangiavo una manciata di pomodorini piccoli, tondi e dolcissimi.

Tutti i corsisti si raccolsero, venimmo disposti in fila con la fronte verso il sole. Lì conoscemmo Antonino Drago, docente universitario esperto di nonviolenza, capelli chiari, barba, baffi e occhiali. Pareva un professore saggio e a modo, solo stonava un po' la sua tunica corta con disegnato sulla schiena un grande sole. Ci parlò di tecniche nonviolente, di rispetto della natura e del bisogno di fermarsi per ascoltare i rumori della vita. Ci insegnò l’importanza di prendere coscienza dello scorrere del tempo.

Ogni mattina, prima della colazione, ci mettevamo in fila, fronte al sole, per rilassarci e ascoltare il proprio respiro. Poi bisognava rompere le righe, abbracciare e baciare tutti gli altri. La colazione consisteva in caffè d’orzo, pane, marmellate fatte in casa, frutta.
«Ma che cos'è questa tisana che non l’ho mai bevuta?» Raffaele non conosceva il caffè d’orzo, ma io sì.

Ricordo una pentola dal fondo bruciato e nero. Mia madre ci metteva l’acqua e due cucchiai di orzo, poi lasciava bollire. Una volta freddo filtrava tutto e metteva il liquido in una bottiglia, in frigo. Veniva usato nel caffellatte al posto del caffè bon, quello riservato agli ospiti. A Massafra però l’orzo non lo filtravano.

All’inizio ci stavamo attenti, ma poi mangiavamo tutto. Anche lì in dotazione davano una ciotola di legno ed un mestolo, che pulivamo con sabbia e acqua, alla faccia del solepiatti. Ognuno aveva dei compiti a rotazione: pulire la cucina, preparare il pranzo, raccogliere le verdure e raccogliere lo sterco secco delle vacche per portarlo nella concimaia. Molti preferivano pulire le verdure. Roba da rimpiangere lo swimming groupAd ogni ora suonava una campanella: tutti si fermavano, fronte al sole. Liberavi la mente ed ascoltavi i rumori. «Il lavoro distrae, non ci si accorge di essere vivi e il tempo passa nella nostra indifferenza, perdiamo vita senza accorgersene». Uno dei tanti insegnamenti di Tonino Drago. Al pomeriggio facevamo yoga. Si imparavano posture incredibili; come quella nella quale stavi in equilibrio su una gamba sola, l’altra gamba piegata ad angolo di lato, con la pianta del piede a toccare il ginocchio della gamba a terra. Le mani distese sopra la testa con i palmi uniti a creare una specie di punta sopra la testa. Erano comuni i capitomboli.

Una sera ci portarono a Massafra per una conferenza, senza cenare, perché era previsto un rinfresco. Dato che gli argomenti erano noti, il gruppo del pianoro della masseria decise di girare per il paese, perdendosi. Mi trovai in mezzo a delle viuzze, poi vidi un vecchietto. Gli chiesi se per caso aveva visto dei ragazzi in giro. «Ieni, ieni co mie ca te portu ieu a du stanu», non avendo con me il vocabolario pugliese-veneto lo seguii per curiosità. Il vecchietto entrò in una casa, bianca.

A dire il vero tutte le case erano bianche e fatte in modo strano, un misto di costruzione tra una grotta e una casa. Spesso i tetti non c’erano, quasi tutte finivano con la terrazza, dicevano servisse per raccogliere l’acqua, o per costruirci un altro piano se bisognava ingrandire la casa. Una volta entrati, il vecchietto mi portò giù per una stretta scaletta di cemento, bianca. Sotto, grande come tutta la casa, c’era una cantina con botti di legno di ogni misura, e seduti in cerchio tutti i ragazzi della masseria con un bicchiere in mano. Raffaele aveva le guance rosse, e a guardarli bene, anche gli altri erano rubicondi. Di certo non erano al primo bicchiere. Anch'io gustai il vino e, senza accorgermene, divenni rubicondo anch’io.

Fu una rivelazione: era un vino bianco, secco e fermo con una buona gradazione ed un gusto strano, fruttato, e il profumo che ricordava l’uva, ma anche la frutta. Non si capiva bene. «Ede la pesca, ogne famiglia tene nu truccu pèl u mieru, a casa noscia mitimu la pesche cu fermentano lu mostu». Ora capivo il nonnino, non servono vocabolari nelle cantine. Il segreto del nonnino consisteva nel mettere delle pesche nel mosto, e queste davano un profumo inebriante. Ora dovevamo mangiare qualcosa. In qualche modo ci alzammo in piedi, salutammo il nonnino che, gentilmente, ci aiutava a salire i gradini, quindi uscimmo. Poi il vecchietto ci rincorse tirando uno di noi per un braccio «Ehi, stu vagnone e buesciu? Nu lu putiti mica lassare a quai!!». Capimmo di avere dimenticato uno in cantina e che il nonno non voleva tenerselo, allora lo portammo con noi.

La conferenza era ormai finita e cominciarono a comparire pizze enormi, focacce fatte con olio, pomodorini e origano, calde e profumate. Misero in tavola anche un cesto di pomodori, una vasca di terracotta con acqua, bottiglie di olio, sale e vasetti di acciughe. Su un paio di cesti di vimini c’erano mucchi di ciambelle di pane secco e durissimo.
Scoprimmo le friselle e fu una delizia, a non contare il primo morso di Raffaele, che per poco non ci rimise un incisivo. Per mangiare le friselle, senza perderci i denti, c’è un solo modo: prendere la frisella e bagnarla nell’acqua, poi strusciarci sopra dei pomodori fino a romperli, irrorarla di olio, un pizzico di sale, e allora sì che puoi mangiarla. Chi voleva aggiungeva origano o acciughe. Scoprimmo anche un vino rosso, il cui nome suggerisce il gusto: il Primitivo. Il suo nome dice tutto. Altro di quella serata non ricordo.

Durante i pomeriggi stavo all'ombra di un olivo enorme; accanto a me, chissà per quale motivo, stavano tutti i bambini e le bambine che abitavano lì. In me vedevano qualcosa che Raffaele non capiva, e nemmeno io capivo. A Massafra abbiamo incontrato persone incredibili. Del resto, cosa potevi aspettarti in un campo sulla nonviolenza dove raccoglievi sterco secco, praticavi yoga e alla mattina stavi di fronte al sole ad abbracciare e baciare degli sconosciuti?

Tra questi sconosciuti, un frate cappuccino in incognito, senza saio. Una sera ci raccontò della madre morta da poco, e di una poesia a lei dedicata, che le aveva scritto per il suo funerale. Lo invitammo a recitarla per noi.

“il testamento dell’allodola” di Flavio Gianessi

Ti lascio terra color delle mie piume
e più dentro a te
entro nel tuo corpo
con il mio color di te
ti lascio il corpo.
Prendimi mentre ti lascio
tienimi forte e leggera
per l’ultimo mio volo
quando entrerò in te
con gli occhi della sera.
E tu, a te sera
lascio il mio sguardo
gli occhi
quasi addormentati come ogni sera
perché mi fido di te cui ogni sera affidavo gli occhi
e poco prima dell’alba mi risvegliavi silenziosa
e ti vedevo mentre la luce ti prendeva in sposa
con gli occhi dell’aurora.
Luce?! Sole?!
Se gli occhi
ho donato alla sera a te cosa do?!
Tutta la mia forza il mio calore
quando scaldavi il cuore
e ti correvo incontro
e ti giravo attorno
e ti cantavo il canto che tu sai
ed eri mio
e non ti avevo mai.
Ed eri mio
quando scioglievi inverno
e a me donavi primavera
e l’acqua di te calda nella sera.
Acqua?
A te che mostrasti per prima il mio volto
laggiù nel mio stagno pieno di voci e di
rumori amici che non si tacciono a sera
a te acqua, a te e al vento
do il mio canto la mia preghiera.
Il vento giocava con te e con le nubi
come dei riccioli di fanciulla
ingenua e casta.
E portavi lontano le mie ali
e la mia voce
e il color delle mie piume;
solo ti prego pioggia di non scendere fredda
sulle mie ossa ad impastarmi di terra
ma calda dammi l’addio.
E voi
fiori
frutti
verde grano dei boschi e dei prati
e tu rosso tulipano
cosa lascio a testamento a voi
che tanto avete dato a me
e ai tanti amici
una preghiera e l’ultima
coprite voi
questa mia piccola fossa senza sponde
così come vi semina il vento
che seminò il mio canto ed ora
l’ultimo
m’accoglie.

Silenzio e commozione.
Flavio spiegò che l’allodola, quando sente di dover morire, vola verso il sole e canta per lui fino a cadere sfinita per poi lasciarsi andare.

C’erano anche due ragazze torinesi ed un loro amico, uno spilungone magro e dinoccolato, con un cespuglio riccio e biondo in testa e un paio di occhiali con montatura e lenti ambrate. Tornando da Massafra beccammo un bel passaggio lungo, Raffaele era a fianco dell’autista e io sonnecchiavo dietro. In quel passaggio Raffaele raccontò all’autista tutta la sua paura per l’esame di maturità, la difficoltà di concentrarsi, la responsabilità del risultato e il dubbio di non riuscire a regalare ai suoi la soddisfazione di un bel voto. 

Di tutto questo, in quasi duemila chilometri, non ne parlò mai con me. Scelse un estraneo, un occasionale e gentile autista che non avrebbe rivisto mai più. Strano, ma a volte è più facile condividere i propri stati d’animo con uno sconosciuto, piuttosto che con un amico.

In autunno decidemmo di andare a trovare i tre torinesi. Ci accolsero a casa dello spilungone. Passammo una giornata dentro a una stanza piena di cuscini e materassi, in penombra. Una lieve musica delicata faceva da sottofondo alle nostre chiacchiere. Lo spilungone ci raccontò che aveva montato dei nastri speciali che riproducevano quella musica per ore. Per un giorno intero parlammo di qualsiasi cosa, con lui e con le due ragazze.

Mesi dopo, quando Torino era solo un ricordo, arrivò una lettera dalle due ragazze. Il loro amico, lo spilungone con gli occhiali ed il cespuglio in testa si era ucciso. Aveva svuotato un flacone di insetticida in un bicchiere e lo aveva bevuto. Lo trovarono dentro la stanza, tra i cuscini e la dolce musica di sottofondo che ancora girava nel mangiacassette. Si uccise così, come un insetto. Non lasciò una parola, un saluto o una riga. Decise di tagliare il filo sottile che lo sosteneva appeso, in attesa di cadere. Lo tagliò immerso nella sua musica preferita, uccidendosi in una agonia terribile.


Ognuno aveva il proprio stile nel rimediare i passaggi. Certo, agitare il pollice è cosa nota, anche scrivere la destinazione su di un pezzo di cartone può funzionare. Qualcuno preferiva chiedere l’autostop esattamente sotto i cartelli dell’autostrada con scritto divieto di autostop, che era ironico e faceva tendenza. Ivano usava una tecnica tutta sua, un cartone con disegnato un punto di domanda, ma lui era oltre.

Bigi e Ivano andarono a Viareggio, 350 chilometri, un viaggetto.
Era un campo di lavoro di Mani Tese, con una serie di incontri sulla nonviolenza. In quell’occasione conobbero il grande e grosso Marco Pannella, con tanto di prova fotografica. Pannella era una persona, oltre che una personalità, imponente. Nella foto si vede Marco Pannella al centro, alto due metri e massiccio. Ivano, alto un metro e settantacinque, arrivava alla sua ascella. Bigi alto uno e novantasei, era leggermente più basso di Marco, ma decisamente più esile. Nel gruppetto della foto c’è anche un ragazzo col caschetto, biondino e piccolino, uno sconosciuto. Il volto furbetto e curioso, un vero spaccamaroni che continuava ad infilarsi in tutto quello che Ivano e Bigi decidevano di fare, e si ostinava a stare con loro, simpatico come un gatto nelle mutande.

Così i nostri amici pianificarono una strategia alcolica per liberarsi di lui. Alla sera lo invitarono ad uscire con loro e gli offrirono uno spritz. Lo spritz, comune aperitivo in Veneto, risultava totalmente sconosciuto a Viareggio. Quando Ivano chiese al barbuto e rubicondo barista: «tre spritz, uno liscio, uno macchiato Aperol e due macchiati Campari»
il barista lo guardò come un merluzzo guarda Capitan Findus.






Scoperta la completa ignoranza del barista, optarono per una rapida lezione, con dovizia di particolari e di assaggi. Così si partì dalla base. «Lo spritz nasce come acqua gasata e vino bianco, qualcuno chiede lo spritz rosso, basta usare vino rosso. Poi c’è lo spritz macchiato. Quindi una parte di acqua, due di vino, rigorosamente bianco, e una di Aperol o Campari. Alcuni coraggiosi usano degli amari, tipo Cynar. Poi c’è il bianco macchiato, solo vino e i vari liquori». Ivano spiegava tutto questo dal bancone del bar. Il barista si era messo dal lato dei clienti e per ogni tipo di miscela proposta si provvedeva all’assaggio.

Fu solo l’inizio. Terminata la lezione si aprì un contenzioso riguardo al conto, che ammontava a circa ventimila lire. Tentarono di convincere il barista che aveva ricevuto una lezione da un importante esperto di prodotti locali veneti. Alla fine si accordarono per diecimila lire così ripartiti: zero lire al maestro Ivano, zero lire al suo assistente Bigi, cinquemila lire al ragazzo col caschetto e cinquemila lire al barista perché anche lui era dalla parte dei clienti. Tutti convennero che fosse una giusta mediazione, anche il barista, che aveva ancora gli occhi da merluzzo, solo un pochino più offuscati.

La via dell’alcol era appena iniziata. Più avanti trovarono una fiaschetteria e comperarono la vernaccia. Bigi e Ivano litigarono ferocemente tra loro per offrire la bottiglia che alla fine fu pagata dal caschetto per evitare spargimenti di sangue. L’idea era di portarla al campo di lavoro, ma dopo poco venne stappata dal provvidente cavatappi di Bigi e procedettero al furbesco assaggio. Mentre il caschetto tracannava, i nostri due, gatto e volpe, facevano solo finta di bere. La povera vittima aveva cominciato a ridere a vanvera e parlare a caso. Continuarono a camminare per le strade del centro, mentre il tempo passava. Alla fine si ritrovarono dentro un bar, per controllare se lì conoscevano la grappa. Era ormai tardi e in quella bettola trovarono due trans che chiacchieravano simpaticamente col barista. Quando videro i tre intuirono che due di loro stavano massacrando il terzo. Un poco alla volta si aggregarono al tavolo e si cominciò una discussione amichevole al sapore di grappa. Fu servito il primo giro, che il caschetto tracannò prima degli altri. Questa era un’ingiustizia, perché bisognava fare il brindisi. Prontamente gli servirono un altro grappino. Si brindò e appena l’incauto posò il bicchierino, praticamente vuoto, per errore Bigi lo urtò, rovesciando sul tavolo poche gocce di grappa. Rammaricato offrì un altro grappino che il caschetto, ormai perduto nella nebbia, goffamente tentò di rifiutare.

Le grappe vennero offerte dai due trans, Samantha e Deborah di notte, Aldo e Dino, muratore e macellaio, di giorno. Alla fine, parecchio più tardi, riportarono il caschetto al campo. Lungo la strada, un paio di volte lo raccattarono da terra dove si ostinava a sdraiarsi per dormire. Entrati, lo legarono con la cinghia delle sue braghe alla ringhiera delle scale e lo salutarono invitandolo a cantare per loro una ninna nanna. Appena questi dimostrò di possedere un’ugola degna di Claudio Villa, i due si dileguarono. Si accesero le luci di tutte le camere, tranne che di due. Il giorno dopo Ivano e Bigi vennero richiamati dal responsabile del campo, il quale espresse il suo disgusto per quello che era successo.

Anche i nostri furono del medesimo parere, e raccontarono come il Claudio Villa di Viareggio si fosse ingollato quattro o cinque spritz. «Spritz??», disse il responsabile del campo, così Ivano spiegò nuovamente tutta la teoria al riguardo. Poi raccontarono di come si fosse offerto di comperare una bottiglia intera di vernaccia costringendoli a bere. Di come avevano passato la notte in una bettola con trans e grappa. Erano stupefatti e delusi che non si fossero fatti opportuni controlli sulle persone che partecipavano al campo, e che chiunque potesse iscriversi.

Tre giorni dopo, il caschetto si riprese e venne invitato con forza ad andarsene, ma non prima di essersi scusato con Ivano e Bigi. Fu molto credibile e visibilmente dispiaciuto. Disse che il responsabile del campo gli aveva raccontato cosa aveva fatto, e che non capiva come fosse successo, perché lui non era così. Purtroppo non ricordava niente della serata, e si scusava per aver svegliato tutti, e pensare che credeva di essere stonato. In particolare si scusava molto con Ivano e Bigi. Li considerava due affidabili amici e li ringraziò molto per averlo aiutato a rientrare. Ma non si spiego ancora come avesse fatto a legarsi da solo alla ringhiera, questo proprio non lo capì mai.

E non lo capì nessuno.

Ci fu un unico viaggio di sesso misto e coppie incrociate: quello di Schizzo e mio. Occhi azzurri, capelli lisci e lunghi, persona nota per la sua calma: per questo la chiamavamo Schizzo. Schizzo stava con Gnagno, io stavo con Celeste. Gnagno e Celeste erano stati invitati a venire via ma né l’uno né l’altra potevano. Così la coppia trasversale, Schizzo ed io, partimmo da buoni amici quali eravamo.

Barcellona, 1200 chilometri, non male come prima tappa. Il giro prevedeva Spagna e Portogallo, le tapas, la paella e la sangria in Spagna, il Porto in Portogallo.

Nulla di tutto ciò avvenne.

Era un viaggio atteso da tempo. Racimolavo soldi lavorando in vari modi, una parte serviva per il viaggio, un’altra per mantenere la famiglia, cioè Ivano e Bigi. La domenica mattina commesso a vendere scarpe, alla sera cameriere, il sabato sera cameriere, ma da un’altra parte. Il sabato mattino l’imbianchino, durante l’estate il barista, occasionalmente il commesso in un negozio di vestiti. A settembre la vendemmia, poi altri lavoretti, come la raccolta di polli alla notte.

Ero pronto, ed anche la mia sfiga lo era.

Partimmo fiduciosi ed entusiasti con la speranza di verificare se è vero che l’autostop con una ragazza rende tutto più facile; e così fu, per Schizzo. Ci caricò un ricco signore in vestito blu e maggiolone tre porte nero, sedili in pelle bianca. Caricò Schizzo sul sedile al suo fianco, e gettò me e gli zaini dietro. Saliti a bordo srotolò la capote del maggiolone, alzò i vetri dei finestrini anteriori e partì con il suo Herbie. Davanti brillava il sole ed un leggero venticello rinfrescava i volti, amabilmente si chiacchierava del più e del meno. Dietro un uragano di correnti d’aria, l’ululare del vento e del motore non permetteva di capire niente.

Poi ci caricò una famiglia inglese: moglie, marito e due figli. Il marito fece scendere la moglie, che andò a dormire in roulotte, grata di avere trovato un baby sitter, cioè me. L’inglese fece sedere Schizzo al suo fianco. Io, gli zaini e i due figli dietro. Subito i bambini si sedettero sopra di me e cominciarono a litigare, aprendo e frugando negli zaini. In prossimità della frontiera ci chiesero di salire dentro la roulotte e di nasconderci perché non potevano trasportare sei persone. Attraversammo così la frontiera Italia / Francia nascosti, come clandestini.

Era l’imbrunire quando arrivò l’ultimo passaggio della giornata. Ci caricò una macchina guidata da tre ragazzi. Schizzo salì davanti come da consuetudine. Era un po’ stanca. Io dietro con due tipi. Lungo il percorso iniziarono una drammatica conversazione in inglese. Ascoltavo in silenzio, con il mio inglese minimalista. Schizzo, forse per non sembrare scortese, sorrideva fingendo di capire con cenni di consenso. Ad un certo punto cominciarono a suonarmi in testa campanelli di allarme. Nel discorso dei tre ogni tanto comparivano parole e frasi che si riferivano ad azioni legate alla fase riproduttiva dei mammiferi. Schizzo, sempre più stanca, era in loop e continuava a dare cenni di assenso. «Secondo me dovresti cominciare a dire no, oppure puoi dire anche sì, se hai capito cosa chiedono, ma per cortesia fammi scendere».



Schizzo si scosse dal torpore e dopo pochi chilometri chiese di scendere con urgenza. Ci fecero scendere nel nulla, nei pressi di Aix-en-Provence, lungo la statale. Notte, buio pesto, tirava vento, ci trovavamo a 700 chilometri da casa e 500 da Barcellona, in mezzo al niente. Per fortuna lì vicino c’era un canneto, sembrava il posto giusto dove cercare un rifugio per la notte, sfruttando le canne per ripararci dal vento. Entrammo in quel boschetto e uno strano ronzio continuo ci accolse, ma non ci badammo. Avevamo fame e sonno. Stesi stuoie e sacchi a pelo, Schizzo si gustò un succo di frutta, io aggredii il panino di sgombro e pane in cassetta, doppio strato. L’accordo era che Schizzo portava da bere, io il cibo. Per un malinteso entrambi avevamo portato il cibo. Così mentre Schizzo, che aveva bevuto l’ultima cosa liquida, si stese e dormì, io girovagai inutilmente alla ricerca di qualcosa per poter inghiottire lo sgombro che mi incollava la bocca. Alla fine la stanchezza ebbe il sopravvento e crollai dentro al sacco a pelo, cullato da quello strano, insistente ronzio.

Dopo mezz'ora eravamo in piedi a prenderci a schiaffi, tentando di uccidere il maggior numero di zanzare possibili. La guerra era impari, i piccoli vampiri alati ci aggredivano da tutti i fianchi. Provammo ad infilarci nei sacchi a pelo a mummia e chiudere tutti gli accessi, lasciando libero solo lo spazio necessario per poter respirare. Alla mattina ci ritrovammo con naso e bocca gonfi di punture. Così, precursori del botulino, inferociti per la notte insonne e disidratati, cercammo subito un altro passaggio. Sarebbe stato l’ultimo dell’andata e il primo del ritorno. Oltretutto, puzzavo di baccalà.

Occupati dalla caccia alle zanzare e stravolti dalla stanchezza, non avevamo notato il curioso profumo di baccalà che il mio nuovo sacco a pelo emanava. Lo avevo comperato da poco nel più grande e rifornito supermercato del paese. Più che un supermercato era un emporio dove si vendeva di tutto, dal fieno al migliore grana padano della zona. La specialità però era il baccalà, che il proprietario comperava direttamente dai produttori norvegesi in balle rotonde. Era la sua grande passione. Prima di venderlo lo passava sotto una specie di strana macchina a pedali che azionavano un martelletto. Lo batteva tutto per sfibrarlo e rendere il baccalà secco più morbido, una volta bagnato. I sacchi a pelo erano sulla mensola esattamente sopra il baccalà, e siccome l’odore era ovunque, dentro al negozio non si notava. Comperai il nuovo sacco a pelo e lo avvolsi con del nylon perché non si bagnasse nel viaggio, ma al primo utilizzo il baccalà esplose nella sua fragranza.

Si fermò una coppia di fidanzati francesi che stavano andando a Barcellona. Nostri coetanei, il viaggio nella loro Renault 5 tre porte fu divertente e simpatico, tranne che per quel persistente odore di baccalà che olezzava nel piccolo abitacolo. Per la prima volta, alla frontiera Francia / Spagna chiesero le carte d’identità. La giovane coppia francese, spiegandosi in una zuppa mista di idiomi; francese, inglese, spagnolo ed italiano, chiese se eravamo intenzionati a visitare il famoso museo di Dalì che si trovava lungo la strada, a Figueres. L’idea ci piaceva, così oltre alla carta d’identità prelevammo 100 mila lire a testa, dal ripostiglio segreto degli zaini. Furono gli unici soldi su cui contare e l’ultima volta che vedemmo i nostri zaini.

Arrivati al bel museo, i francesi parcheggiarono vicino alla stazione della polizia, nessuno si preoccupò di nascondere gli zaini: c’era la polizia. Il museo era incantevole. Dalì un pazzo visionario. Ci colpì la stanza dedicata a Mae West, dove l’arredamento visto da un soppalco assume le sembianze del volto dell’attrice, poi la Cadillac del taxi piovoso nello stranissimo giardino. Uscimmo felici, fino alla macchina. Il portellone del bagagliaio era rotto, gli zaini spariti, con tutti i soldi. Anche i francesi erano rimasti con poca roba. Se avessimo avuto un gatto avremmo potuto trovare gli zaini seguendo l’odore del baccalà.

Andammo a fare la denuncia alla vicina, ed inutile, stazione di polizia. Nella denuncia parlavano di un chico, di una chica e di un coche, più che una denuncia sembrava una barzelletta. Decidemmo di andare comunque a Barcellona, al consolato italiano, dove chiedere e ricevere dei soldi; illusi. 

Una volta in auto, mandammo in Figueres i ladri e Dalì, e da lì in poi continuammo con i pochi soldi rimasti.

Senza altre fermate, Barcellona ci accolse, arrabbiati e tristi. Trovammo alloggio tutti e quattro in una pensione economica, molto economica. Nel prezzo c’era il bagno in camera, letteralmente. Infatti nella stanza oltre ai due letti c’era un lavandino ed un water. La doccia era in comune, in corridoio. Molto strani gli spagnoli. Posati gli zaini salutammo i francesi e subito cercammo il consolato.

Non andate al consolato di Barcellona se vi rubano soldi, è un viaggio inutile e vi sgridano, per giunta dandovi degli stupidi per esservi fatti rubare le cose. L’unica soddisfazione che si può ricevere è quella di scoprire che non siete gli unici allocchi italiani derubati. La sala d’attesa era colma di italiani e il simpatico funzionario risolse la questione dando a tutti, con democratica equità, degli stupidi per essersi fatti derubare così facilmente ed accusandoci di far denigrare la nostra patria da quattro furfantelli. Consigliò di farci spedire un vaglia con i soldi al consolato e di lasciare un recapito, poi lui stesso ci avrebbe contattati. Nessuno si fidò di lui e tutti sospettarono che il suo aiuto fosse interessato. 





Così, senza soldi, decidemmo di fare la spesa.

Al primo supermercato ci rifornimmo di shampoo, sapone, spazzolini da denti, dentifricio e spugne, dimostrando a nostra volta che in caso di necessità anche i più onesti possono rubare. Tornando a casa, incontrammo un italiano che portava al collo il pendaglio di Taizé. I pendagli di Taizé sono costituiti da un medaglione rotondo che riporta stampata l’effige di una colomba, creando così, da un unico pezzo, due pendenti: l’interno del medaglione a forma di colomba e l’esterno, il medaglione con il buco. Il ferro può essere smaltato con vari colori. Il tizio che incontrammo portava l’effige della colomba smaltata in nero, io indossavo il medaglione con il buco della colomba, anch'esso nero. Fu la scusa per conoscerci. Si trattò di un incontro fugace, appena il tempo per raccontare le nostre disgrazie e salutarci.

Alla sera per tirarci su mangiammo in una bettola: gazpacho, paella, insalata e sangria. Schizzo crollò, pianse per tutta la sera sopra la sua insalata e non riusciva a mangiare. Io mangiai il gazpacho, riproponendomi di non mangiarne più, poi mangiai la paella e tracannai la sangria. Rassicurai Schizzo che tutto sarebbe andato per il meglio, poi le chiesi se potevo mangiare la sua insalata, e lei acconsentì. Era un po’ salata ma andava bene. Alla fine comperammo le Ducados da una matrona che passava fumando tra i tavolini e tenendo le sigarette in un cesto di vimini. Sfiniti ci buttammo a letto per dormire. Nella notte mi scivolò una mano a terra e sentii acqua. Accesi la luce: la stanza era allagata. Schizzo dormiva nel suo letto.

Senza fare rumore, scesi in quella che con molta fantasia ci avevano presentato come recepcion. Svegliai il guardiano dicendogli «agua agua», lui si alzò, in mutande e canottiera, aprì un frigo e mi diede una bottiglia d’acqua. Visto che il mio spagnolo aveva grossi limiti e considerato che l’inglese e l’italiano erano ignoti al portiere, lo trascinai su per le scale, in mutande, con suo grande stupore.



Quando vide la camera allagata capì il problema, il torpore notturno si dissolse, ed anche il velato dubbio che volessi abusare di lui, e cominciò a parlarmi concitato. Vide che non capivo niente, quindi scese e tornò e con scopettoni, secchi e stracci. Con una chiave inglese chiuse l’acqua che usciva da sotto il lavandino, quindi cominciammo a raccogliere l’acqua e a pulire. Schizzo dormiva beata. Verso mattina avevamo sistemato tutto. Il tipo mi salutò ringraziandomi e finalmente mi buttai a letto.

Due ore dopo Schizzo, pimpante, mi rovesciò giù dal letto: «non possiamo stare qui a dormire, su dai, oggi visitiamo Barcellona e poi vorrei vedere il museo di Picasso». Stravolto, decisi di non ostacolarla e a rassegnarmi alla sua rinata vitalità, la seguii per le vie di Barcellona, finsi di ascoltarla mentre mi parlava della Sagrada Familia di Gaudì ancora incompiuta; le dissi che anche al Duomo di Milano continuano a metterci le mani, ma mi ignorò.

Alla fine arrivammo al museo di Picasso. Non ricordo molto delle opere del museo, ma ne valse la pena. In una stanza, ad ammirare un quadro, con un bambino per mano ed un’amica al fianco, incontrai e seguii discretamente Sade Adu: una visione. Amavo la sua voce, le sue canzoni, in particolare Smooth Operator e Your Love Is King.


Rimasi al suo fianco, senza intromettermi, senza disturbarla, solo per guardarla, capire quanto potesse essere diversa da quel che si vedeva di lei nei video. Era autentica, come speravo fosse, con la sua lunga treccia a raccogliere i capelli e a far risaltare il suo viso dai lineamenti lievemente asiatici. Alla fine anche il museo di Picasso mi donò qualcosa.

Al ritorno trovammo un biglietto che il portiere, ormai affezionato amico, stavolta vestito e sorridente, ci consegnò. Scritto dai nostri due amici francesi, nella consueta zuppa di lingue, il biglietto faceva intendere che avevano subito altri due scassi alla macchina. Considerando che la Renault 5 aveva tre porte, rimaneva solo il cofano del motore da scassinare. Valutata l’impossibilità di chiudere il coche, decidevano di tornare a casa finché avevano ancora la macchina. Se volevamo, il giorno dopo ci aspettavano sotto la Sagrada Familia.




Così tornammo a casa. Il portiere, considerate le mie fatiche notturne, ci scontò una notte e ci salutò, invitandoci a tornare. Ottenne anche la promessa che avremmo parlato a tutti del suo albergo, e in effetti così fu.
Con gli ultimi soldi comperammo una borsetta in cuoio da usare come bagaglio a mano per metterci i nostri averi: gli spazzolini, lo shampoo, il dentifricio e la denuncia. La borsetta sarebbe stata anche un piccolo souvenir da regalare a Celeste, al ritorno.
Tornammo a casa con due passaggi, senza soste ed in un solo giorno. Un record.
I francesi ci scaricarono in un autogrill, vicino al canneto delle zanzare per capirci. Leggendo le targhe ne trovammo una con la sigla della nostra provincia.
Ci appostammo, e appena il tipo comparve Schizzo lo circuì. Lo convinse a portarla a casa, quindi saltai fuori anch’io. Il tipo salì in macchina «mi spiace, ma non ho posto per due persone e i bagagli.» Schizzo bussò al vetro e alzando la borsetta di cuoio disse con gli occhi gonfi «abbiamo solo questo». Impietosito ci caricò e ci portò fino a casa, 700 chilometri con un unico passaggio: i buoni samaritani esistono.

La reazione di mia madre fu sintetica. Esordì con «cosa feto ti casa?». Le spiegai del furto, così mi rimproverò per avermi fatto rubare i vestiti, per tutti sembrava che la colpa fosse nostra. Il giorno dopo chiamai Celeste all'albergo dov'era in ferie al mare. «Sono a casa, mi hanno rubato tutto.» «Se vuoi puoi venire da me, c’è posto.» «E con cosa vengo? non ho soldi.» «Sei andato a Barcellona in autostop, puoi arrivare fino a Caorle» riagganciò.

Presi la bisaccia di cuoio che usavo come cartella dalle medie, ci misi dentro un po’ di roba e partii, 120 chilometri, un’inezia, un passatempo. Celeste si vendicò in modo scherzoso ma efficace.

Arrivò un temporale estivo al mare, le onde si ingrossavano e per me era un invito a tuffarmi e nuotare. Poi cominciò la pioggia. Tutti raccolsero le cose, chiusero gli ombrelloni e si ripararono dentro il bar della spiaggia. Tornato a riva non vidi la macchia di colore dell’ombrellone, unico punto di riferimento per i miei occhi miopi. Camminai sotto la pioggia, lungo la battigia, avanti ed indietro, solo, con l’acqua sempre più scrosciante. Lo slip bianco, con impresse le testate dei più famosi giornali e comperato in emergenza in un negozio fronte mare, si rivelò incapace, una volta bagnato, di nascondere le intimità. Così mi ritrovai nudo, in mezzo al nulla, sotto un temporale. Quando tutto finì Celeste venne a raccogliermi. Mi avvolse con un asciugamano «bene, anche oggi hai fatto la tua bella figura.» Il giorno dopo comperai un altro costume, nero.

Era consuetudine, terminate le vacanze estive, raccoglierci da Bano, nella sua taverna e raccontarci dei viaggi, delle avventure e dell’ennesima espulsione da Taizé. Si parlava di Madrid, Grecia, Taizé e altro. Schizzo ed io eravamo silenziosi, fino a che Fayo disse «Oh, sapete cosa mi è successo a Taizé? Ho incontrato uno che arrivava da Barcellona, mi ha detto che ha trovato due italiani davanti all’Ambasciata. Tentavano di farsi dare dei soldi perché gli avevano rubato tutto, che pollastri». 

Tutti risero prendendo in giro quei due poveri cristi.

Quasi tutti risero, a dire il vero.